Nov 3, 2014 | ALIMENTAZIONE E SALUTE, MEDICINA FUNZIONALE, PILLOLE DI RIFLESSIONE
Dimostrata un’associazione tra consumo di elevate quantità di carboidrati ad alto indice glicemico, come ad esempio il pane bianco, e il rischio di essere colpiti da ictus.
Una dieta ad alto carico glicemico non solo aumenta il rischio di cancro ma anche quello di altre malattie cronico degenerative: questo è il risultato di uno studio condotto dai ricercatori dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano guidati da Vittorio Krogh, responsabile della Struttura complessa di epidemiologia e prevenzione, che ha messo in luce in particolare il rapporto tra il consumo di carboidrati ad alto indice glicemico, come pane bianco e zucchero, e l’insorgenza di ictus.
Il lavoro, pubblicato oggi sulla rivista scientifica PLOS ONE, fa parte del progetto EPICOR, studio sull’associazione tra dieta e incidenza delle malattie cardiovascolari in Italia che nasce come satellite del grande studio oncologico EPIC (European Investigation into Cancer and Nutrition) svolto in Italia su oltre 47000 volontari a cui l’istituto partecipa insieme ad altri 22 centri in 10 paesi Europei. E’ stato proprio nello studio EPIC che lo stesso gruppo di ricercatori aveva messo in evidenza come una dieta ad alto carico glicemico fosse associata ad un maggior rischio di tumore alla mammella (articolo pubblicato su Nutrition Metabolism and Cardiovascular Disease, aprile 2012 ).
EPICOR fa parte dei grandi studi epidemiologici condotti dall’Istituto Nazionale dei Tumori che hanno permesso di ottenere risultati non solo in campo oncologico ma anche nell’ambito di malattie non oncologiche quali quelle cardiovascolari.
Lo studio ha permesso di osservare che chi consuma in grande quantità carboidrati ad alto indice glicemico, come pane bianco, zucchero, miele, marmellata, pizza e riso ha un rischio più elevato dell’87% di essere colpito da ictus.
Sabina Sieri, biologa e nutrizionista dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, precisa: “Con questo lavoro l’indice glicemico degli alimenti si conferma un fattore importante nella definizione di una dieta sana.
Conoscere l’indice glicemico di un alimento e privilegiare il consumo di cibi a basso carico glicemico diventa quindi sempre più rilevante per la prevenzione delle malattie cronico-degenerative”.
Alimentazione, indice glicemico e rischio di ictus
L’indice glicemico di un alimento misura la velocità con cui il cibo fa aumentare i livelli di glucosio nel sangue. La “risposta glicemica” a ciascun pasto è influenzata non solo dall’indice glicemico dei singoli alimenti ma anche, in misura determinante, dal “carico glicemico” cioè dalla quantità di carboidrati in esso contenuto. Cibi ad alto contenuto di carboidrati ad alto indice glicemico sono, ad esempio, il pane, lo zucchero, la pizza, ma anche il riso; al contrario, hanno un alto contenuto di carboidrati a basso indice glicemico gli alimenti integrali, la pasta, i legumi e la frutta. Questi ultimi sono digeriti lentamente e quindi determinano un limitato picco della glicemia e una bassa risposta insulinica. Al contrario, il consumo di alimenti ad alto indice glicemico aumenta rapidamente la glicemia e la risposta insulinemica.
L’associazione tra il consumo di carboidrati ad alto indice glicemico e rischio di ictus scoperta da questo studio supporta l’ipotesi che un’elevata glicemia post-pranzo possa essere il meccanismo sottostante all’aumentato del rischio di ictus.
Lo studio EPICOR
Il progetto EPICOR, da cui nasce questa scoperta, fa parte del più vasto studio EPIC (European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition). Obiettivo principale di EPIC è studiare il ruolo dei fattori alimentari e lo stile di vita (in particolare il fumo, il sovrappeso e l’obesità, e l’attività fisica) nella genesi dei tumori.
Questo studio ha coinvolto oltre 47.000 volontari sani, uomini e donne residenti in Italia (i centri di reclutamento sono stati Varese, Torino, Firenze, Napoli e Ragusa). Tra il 1992 e il 1996 si sono raccolte informazioni sulla dieta, lo stile di vita e lo stato di salute di questi volontari. Queste persone sono poi state seguite nel tempo raccogliendo informazioni sul loro stato di salute (ad esempio tramite i registri di patologie o le schede di dimissione ospedaliere).
Per la ricerca sul rapporto tra indice glicemico e ictus, dal 1996 al 2008 sono stati osservati 355 casi di eventi cerebrovascolari ed è dallo studio della dieta che queste persone consumavano prima di ammalarsi che si è scoperto come l’indice glicemico degli alimenti è un importante fattore di rischio per l’ictus.
L’Articolo scientifico:
“Dietary glycemic load and glycemic index and risk of cerebrovascular disease in the EPICOR cohort”. PLOS ONE. DOI: 10.1371/journal.pone.0062625
Redazione MolecularLab.it (23/09/2014 14:30:32)
Ott 27, 2014 | ALIMENTAZIONE E SALUTE, MEDICINA FUNZIONALE, OMEOPATIA
L’insorgere di patologie respiratorie delle alte vie aeree nel bambino è molto più comune che nell’adulto e spesso accade che al manifestarsi di un primo episodio ne facciano seguito diversi altri. Generalmente la frequenza di recidive è inversamente proporzionale all’età e, nello stesso soggetto, va calando progressivamente dai 3 ai 6 anni.
E’ opinione molto diffusa che questo genere di patologia sia legato al sopraggiungere dei mesi più freddi, in realtà sono principalmente due la cause scatenanti: gli ambienti in cui il bambino abitualmente vive e le terapie alle quali è stato sottoposto al manifestarsi dei primi episodi. Si stima che circa il 6% di bambini sia affetto da patologie delle alte vie aeree recidivanti, con una maggiore incidenza del numero nei bambini che vivono in città rispetto a quelli che vivono in zone rurali.
L’approccio allopatico, costituito dall’impiego di antinfiammatori, antibiotici ed antipiretici, mentre da un lato elimina la sintomatologia, dall’altro agisce negativamente sulla capacità di reazione del sistema immunitario.
In modo particolare, la grande diffusione di un approccio terapeutico basato sull’impiego di antibiotici che esercitano la loro azione disgregando la parete cellulare dei microrganismi, ha causato l’adattamento di alcuni di questi ultimi che si sono riprodotti sviluppando forme mutate prive di parete cellulare; in questo modo non solo viene vanificato l’attacco degli antibiotici, ma anche le metodiche laboratoristiche per l’individuazione dei ceppi batterici si rivelano inefficaci.
La risposta immuno-isopatica al diffondersi di queste mutazioni batteriche è rivolta sia alla prevenzione che alla cura delle patologie recidivanti tramite un’azione mirata al potenziamento delle difese immunitarie dell’organismo. In tale ottica, i medicinali immuno-isopatici vengono impiegati sia per la prevenzione che per la terapia delle infezioni ricorrenti modulando la risposta immunitaria. In sostanza viene provocata ed aumentata la reattività delle cellule immunitarie in previsione di un attacco di patogeni.
Da Medicina Integrata – Settembre
Ott 22, 2014 | ALIMENTAZIONE E SALUTE, MEDICINA FUNZIONALE, OMEOPATIA
Nuove discipline hanno trasformato il modo di pensare di molti medici, ricercatori e pazienti. Oggi siamo in grado di riconoscere e di attivare il potenziale di autoguarigione insito in noi, attraverso conoscenze che risultano sia dalla summa di profondi e antichi insegnamenti spirituali, sia da nuovi e sorprendenti dati della ricerca scientifica
Da lunghissimo tempo nella comunità scientifica si discute sulla relazione mente-corpo. Per molti anni, chi ha negato il ruolo della psiche nella genesi, nella cura e nella guarigione dalla malattia, ha avuto buon gioco nel contrastare quelle che erano solo casistiche aneddotiche o teorie prive di una comprovata validazione.
Un’immagine emblematica di come funzionano i neuroni specchio.
Oggi le cose sono mutate. Le neuroscienze, con lo studio del funzionamento del sistema limbico e della corteccia prefrontale, con la scoperta dei neuroni specchio e della neuroplasticità, la psiconeuroimmunologia (PNEI), con gli studi sulla ricaduta che le emozioni hanno sul sistema immunitario, endocrino e nervoso, e la fisica quantistica, con gli studi sorprendenti sul funzionamento energetico sotteso alla materia, hanno già trasformato profondamente il modo di pensare di molti medici, ricercatori e pazienti.
L’atteggiamento riduzionista che periodicamente riappare, di fronte alle sfide che a tutt’oggi le malattie oncologiche, le patologie degenerative e autoimmuni e i disturbi mentali cronici ci pongono, non può più essere adottato e la malattia deve essere ricollocata nella storia della persona che la vive e quindi in una rete psicofisica o unità psiche-soma. Geni, ambiente, alimentazione, stress e stili di vita, ma anche traumi, emozioni collegate alla nostra stessa biografia e capacità di gestirle in resilienza sono fattori tutti interconnessi nei processi di malattia e guarigione.
La nuova medicina integrata
La nuova medicina integrata ha ormai recepito molto chiaramente che la biologia di un individuo è il riflesso della sua biografia e che la psiche e le emozioni inconsce hanno un ruolo determinante in questa dinamica; e che esiste oggi un ponte tra scienza e coscienza capace di guidarci alla profonda comprensione di questi meccanismi.
Oggi siamo in grado di riconoscere ad attivare il potenziale di autoguarigione insito in noi e di farlo attraverso conoscenze che risultano sia dalla summa di profondi e antichi insegnamenti spirituali, sia da nuovi e sorprendenti dati della ricerca scientifica. Il coraggio e l’apertura mentale si possono sposare al rigore intellettuale e alla conoscenza scientifica, aprendo le porte ad un nuovo livello evolutivo degli esseri umani, con nuovi modi di pensare e gradi di libertà interiore ed esistenziale assai maggiori di tempo fa.
Oggi la medicina tiene conto anche della dimensione energetica dell’individuo.
Il grado di conoscenza scientifica che abbiamo raggiunto ci conduce ai lembi estremi della materia e porta la medicina stessa a parlare di energia e di anima come fulcro della guarigione. I processi di guarigione vengono così ad essere riformulati fino a mutare radicalmente le vecchie credenze, che vedevano la malattia come danno di un pezzo del nostro corpo-macchina. La malattia appare oggi nella sua essenza più vera di messaggero che dall’intelligenza del corpo, dai cervelli del cuore e dell’intestino che dialogano con il cervello della testa, giunge a mostrarci, attraverso la biologia, il senso più profondo della nostra biografia e la necessità di una trasformazione che ci conduca più vicino alla nostra Essenza.
Il dato entusiasmante, per il medico, il ricercatore e per noi tutti, è che i meccanismi con cui la malattia fa questa operazione alchemica oggi sono spiegabili in termini cellulari e biochimici e possono essere resi accessibili a un numero crescente di persone, offrendo a chiunque voglia la possibilità di trasformare ciò che viene comunemente definita “malattia” in una straordinaria esperienza di crescita interiore e realizzazione.
In questo senso dunque la mal-attia è ben-attia, ossia occasione di guarigione.
I sette principi della guarigione
La guarigione passa così dal comprendere i concetti fondamentali della profonda unità di psiche e soma, del ruolo che le emozioni inconsce hanno nei processi di malattia e guarigione, della nostra essenza energetica e del ruolo che l’Anima, non solo come costrutto psichico, ma persino come correlato cerebrale, ha nel determinare la guarigione completa della persona.
Giungiamo così a definire sette principi della nuova Medicina Integrata, con solide basi scientifiche, in grado di spiegare l’intero network umano nell’ottica delle relazioni bidirezionali tra dimensione psichica e sistemi biologici.
Sono questi principi, basati sulle conoscenze neuroscientifiche riguardo al sistema limbico, al cervello del cuore e dell’intestino, alla corteccia prefrontale, alla neuroplasticità, fino all’essenza vibratoria del DNA e delle proteine del nostro corpo, a guidarci nel favorire l’autoguarigione.
Da questi principi discendono tecniche di lavoro con livelli significativi di efficacia scientificamente assodata, che ci permettono di riconoscere e curare la componente emotiva nella genesi e progressione della malattia, di riconoscere e trattare la componente energetica e di apprendere le strategie comportamentali, emotive, esistenziali che possiamo utilizzare fin da ora per apprendere e favorire l’autoguarigione.
Mai prima d’ora era stata attuata una sintesi così efficace e rigorosa di neuroscienze, medicina quantistica e discipline psicologiche e spirituali. Questo apre le porte ad una reale speranza e ad una profonda gioia.
Nuovi medici, nuovi pazienti
La diagnosi integrata e l’integrazione sinergica dei trattamenti sono oggi realtà possibili e questo è davvero un momento gravido, di nuova medicina, per nuovi medici e nuovi pazienti, che decidono di compiere assieme un profondo viaggio di grande consapevolezza.
Durante i miei studi universitari m’interrogavo sul miracolo della guarigione invece che soltanto sui meccanismi della malattia: quindici anni dopo mi sono ritrovata a scrivere un testo che definisce i pilastri fondamentali della Nuova Medicina Integrata e, alla luce di questi, propone la visione della malattia come un viaggio che svela i segreti che legano corpo, emozioni, mente e spirito. La malattia dunque come strumento intelligente, come occasione di risveglio.
Si tratta infatti di un viaggio che termina con lo svelamento dell’essenza della guarigione, che è, in ultima analisi, spinta alla ricerca della felicità interiore, quella che secondo le scienze dello spirito deriva da un profondo salto di consapevolezza, che nelle Neuroscienze corrisponde all’attivazione della coerenza cerebrale e cardiaca e nella medicina quantistica all’equilibrio della risonanza energetica in noi.
Linguaggi diversi, oggi unificati ed integrati in un nuovo paradigma medico serio e possibile. La medicina che tutti avrebbero voluto incontrare quando hanno vissuto uno stato di malattia è oggi una realtà che tutti dovrebbero conoscere.
di Erica Poli
Ott 20, 2014 | ALIMENTAZIONE E SALUTE, MEDICINA FUNZIONALE, OMEOPATIA, PILLOLE DI RIFLESSIONE
Attualmente uno dei più importanti problemi psico-neurologici in età pediatrica è la Sindrome da Deficit di Attenzione e Iperattività-Impulsività (ADHD), caratterizzata da disattenzione , distraibilità, impulsività e, in certi casi, iperattività: si manifesta prevalentemente in età scolare con maggior incidenza nel sesso maschile. L’incidenza è in continuo aumento, soprattutto nei bambini delle aree urbane. Anche in Italia questa sindrome sta diventando più frequente: si calcola che 1 alunno su 25 ne sia affetto. L’eziologia dell’ADHD è ancora oggetto di studio, e l’impostazione terapeutica, volendo proporre un approccio integrato di tipo omeopatico, sarà personalizzata, basata sull’analisi degli specifici sintomi alla luce di quelli che si presumono essere i fattori etiologici. Dovremo distinguere fattori eziologici endogeni e esogeni.
I fattori endogeni sono legati alla costituzione del bambino che influenzerà le manifestazioni esprimendo la letargia e la scarsa attenzione nel bambino carbonico, piuttosto che incostanza ed esauribilità nel bambino fosforico, eccessiva disattenzione e scarse capacità logiche nel bambino sulfurico, atteggiamenti bizzarri, facile annoiabilità e atteggiamenti autodistruttivi nel fluorico. Importanti sono i deficit nutrizionali, in particolare la carenza di Ferro, causa di diminuzione dell’attenzione, della perseveranza e dell’attività volontaria; il deficiti di Zinco correlato, oltre che all’insonnia, anche alle problematiche legate all’apprendimento, alla tendenza alla violenza e alla riduzione del quoziente intellettivo. E’ stata notata da alcuni ricercatori anche una stretta correlazione tra le problematiche nell’ apprendimento del bambino e gli accumuli organici di Piombo, Mercurio, Cadmio, e Rame. Questi accumuli patologici possono essere legati sia all’ingestione di sostanze contenenti questi metalli pesanti, sia a carenze nutrizionali che determinerebbero l’accumulo di sostanze tossiche. Nel bambino con carente apporto di Calcio è frequente l’accumulo di Piombo; la carenza di Zinco porta a un possibile accumulo di Cadmio, Rame o Mercurio.
L’ADHD è correlato anche con situazioni famigliari sfavorevoli quali conflitti genitoriali e/o disturbi psichiatrici genitoriali. Il 10-35% ha una famigliarità per tali disturbi, così come una discreta percentuale di pazienti affetti da un’anamnesi positiva per difficoltà perinatali.
Da recenti studi emerge un deficit di concentrazione di neurotrasmettitori che provoca una reazione anomala agli stimoli ambientali.
Tra i più importanti fattori esogeni, per alcuni autori fra i quali Feingold, vi è una reazione allergica o di intolleranza a coloranti e conservanti contenuti in numerosi cibi o ad abusi di dolci a base di zuccheri raffinati, merendine industriali, salumi e cibi conservati di cui i bambini fanno largo consumo.
La corretta diagnosi è fondamentale; è importante per la definizione di una vera ADHD che i sintomi debbano:
- esordire prima dei 7 anni di età;
- durare da più di 6 mesi;
- essere evidenti in almeno 2 contesti della vita del bambino (casa, scuola, ambiente di gioco);
- causare significativa compromissione dello stato comportamentale generale del bambino.
E’ importante formulare sempre la diagnosi differenziata tra ADHD e le problematiche che facilmente possono essere confuse con questa sindrome quali:
– semplice vivacità;
– negligenza pedagocica legata a permissivismo e a tolleranza dei capricci;
– disfunzioni dello sviluppo;
– ritardo del linguaggio;
– disturbi emozionali;
– ritardo mentale;
– psicosi, schizofrenia, mania, depressione mascherata;
– fasi iniziali di un tumore cerebrale;
– sindrome di Gilles de la Tourette.
In particolare il bambino affetto da iperattività:
1. risponde prima di aver ascoltato l’intera domanda;
2. interrompe, interviene nelle attività e impone la propria presenza, ha loquacità
eccessiva;
3. non valuta le conseguenze dei propri comportamenti e non fa esperienza degli
errori commessi, può dedicarsi a giochi pericolosi senza valutarne le conseguen-
ze;
4. ha scrittura particolare con varie caratteristiche;
5. ipercinesia somatica.
Si tratta, quindi, di bambini incapaci di controllare i propri comportamenti. Il Defici di Attenzione è caratterizzato dal fatto che il bambino fatica a concentrarsi su un gioco o un compito perché ipersensibile agli stimoli esterni.
Un bambino che non presta attenzione e, quindi, non impara né dall’esperienza né dalla rielaborazione personale, rischia:
– cattivo sviluppo cerebrale e somatico;
– turbe della personalità (18-25%)
– ritardi di apprendimento e fallimento scolastico che portano a precoce
abbandono della scuola: dal 32 al 40% dei bambini ADHD non terminano
la scuola dell’obbligo; solo il 5-10% arriva all’Università;
– maggior frequenza di gravidanze prima dei 20 anni e di malattie trasmesse
sessualmente;
– problemi medici e sociali (guida spericolata, uso di droghe, alcool e fumo);
– difficoltà nell’instaurare rapporti interpersonali;
– problemi legali.
I sintomi di iperattività-impulsività solitamente migliorano col tempo ma, se prevale la disattenzione, tendono a prolungarsi in età adulta. Alcuni sintomi secondari come l’ansia possono aumentare con l’età…
Sarà utile ovviamente lavorare anche sulla dieta e sull’equilibrio intestinale… Il ripristino della flora intestinale e di una corretta risposta immune saranno quindi ai primi posti negli interventi curativi per questi disturbi…
L’aspetto dietetico, il problema delle intolleranze alimentari e degli squilibri metabolici, devono avere un ruolo nella programmazione della strategia terapeutica, ma sempre dovrà essere data giusta rilevanza all’assistenza psicologica di questi bambini e dei loro genitori.
da Omeopatia oggi 9/14
Lug 13, 2014 | AGOPUNTURA, ALIMENTAZIONE E SALUTE, MEDICINA FUNZIONALE, OMEOPATIA
L’allungamento della durata della vita, l’ambiente carico di agenti inquinanti, lo stile di vita poco sano, la scarsa attenzione al cibo di qualità, il di- stress che sovraccarica il sistema sono tra le principali cause dell’aumento vertiginoso dell’incidenza dei casi di tumore. Si stima che se il livello di crescita rimarrà costante un individuo su due nell’arco della propria vita avrà la possibilità di ammalarsi di cancro.
Il paziente oncologico si trova improvvisamente buttato in un mondo nel quale l’estrema tecnicizzazione dell’approccio medico e la spersonalizzazione di cui spesso si sente vittima, insieme ai profondi disagi fisici ed emozionali e all’ approccio basato soprattutto sull’ eliminazione del cancro dal corpo del malato, viene vissuta insieme ad una scarsa attenzione alle sue esigenze generali, specie quando sente come trascurata la necessità di avere una vita qualitativamente migliore, porta il paziente ad una visione olistica della malattia e all’affidarsi spesso alla medicina complementare
La scarsa conoscenza almeno in Italia e la diffidenza di molti oncologi fa in modo che molte volte l’ammalato non comunichi ai medici che sta effettuando un trattamento non convenzionale. Il paziente dopo ricerche in Internet e nella impossibilità di discernere ciò che ha un senso medico e scientifico da ciò che non ne ha alcuno, si sottopone a volte a terapie , che possono diminuire l’efficacia dei trattamenti chemioterapici. Allo stesso tempo si sottrae a terapie non convenzionali approfondite e che hanno dato indicazioni sperimentali e cliniche positive. Esistono, infine casi in cui l’ammalato si affidi esclusivamente a terapia non convenzionali e anche questo non è accettabile quando il malato decide sulla base di informazioni vaghe e non specifiche.
Per comprendere come la Medicina di Regolazione possa intervenire in ambito oncologico bisogna rifarsi ad alcuni concetti fondamentali di Fisiologia, e secondo le più recenti acquisizioni in termini di patogenesi , individuare i bersagli dell’intervento medico. Soltanto dopo questi passaggi sarà possibile individuare il senso biologico dei suggerimenti proposti, e comprenderne le potenzialità.
Per la Medicina di Regolazione esistono disturbi dell’omeodinamica che consentono una piena restitutio ad integrum ed altri che portano a processi degenerativi o cronici fino a quelli neoplastici. L’infiammazione è sempre la prima risposta, automatica reazione messa in atto dall’organismo di fronte a qualsiasi tipo di stress o insulto e che la sua cronicizzazione accompagna sempre i processi successivi creando le condizioni locali per lo sviluppo, nel tempo, delle patologie degenerative fino all’insorgenza del cancro. Quindi la gestione dell’infiammazione e non la sua soppressione è fondamentale per la modulazione ed il controllo di qualsiasi patologia. Dico modulazione , nel senso che essendo l’infiammazione un meccanismo fondamentale per il ripristino dello stato di salute la sua soppressione interrompe e blocca portando verso un peggioramento del quadro. L’assumere un farmaco antiinfiammatorio in una situazione acuta, sì migliora il sintomo, ma blocca la risposta del sistema portandolo verso un quadro di infiammazione cronica. Quindi più farmaci antiinfiammatori assumo più cronicizzo un problema che in modo diabolico mi porta in modo costante ad assumere un farmaco che mi porta inevitabilmente attraverso un’infiammazione cronica ad evolvere verso processi degenerativi.
Per la Medicina di Regolazione l’infiammazione va modulata e non soppressa cercando di capire dove, come e perché questo processo, fondamentale per lo stato di salute , si è innescato mettendo in campo azioni di modulazione dello stesso essendo questo un ” fuoco depurativo”necessario a mantenere in equilibrio il sistema., consentendo una chiave di lettura del fenomeno che trova conferma in una delle branche più promettenti della ricerca scientifica nell’ambito delle malattie degenerative, l’EPIGENETICA ( studio dei cambiamenti ereditabili nell’espressione genica non causati da cambiamenti nella sequenza del DNA). La differenza tra Genetica ed Epigenetica può essere paragonata a quella tra fare un film e vedere un film: una volta fatto un film, le immagini, le scene, i dialoghi, le musiche ( i geni o le informazioni memorizzate nel DNA ) saranno identiche a tutte le copie distribuite nei cinema. Ogni spettatore, però, potrà interpretare il film in modo personale provando sensazioni ed emozioni completamente diverse dagli altri.
La Medicina di Regolazione è in grado di intervenire nel sistema perturbato modulando gli aspetti esterni attraverso un percorso che va dal drenaggio connettivale al controllo dell’infiammazione cronica, allo sblocco del metabolismo cellulare bloccato e sulla comunicazione intercellulare fino al controllo e al potenziamento del sistema immunitario e non ultimo evidenziare come l’aspetto generale di comportamento ( alimentazione, sport, stile di vita, emozione, stress) siano elementi fondamentali non solo per potenziare la terapia ma soprattutto per innescare un mezzo di prevenzione altamente efficace.
Lug 2, 2014 | ALIMENTAZIONE E SALUTE, PILLOLE DI RIFLESSIONE
Nel 1993, lo scienziato Bob Elliott notò che i bambini della Samoa che andavano a vivere in Nuova Zelanda erano molto suscettibili al diabete di tipo 1, mentre quelli che restavano nelle isole di Samoa avevano un’incidenza molto bassa di questa patologia. La differenza può essere espressa solo da un fattore ambientale o di alimentazione. Elliott sospettò che fosse correlata al consumo di latte, che era più basso a Samoa.
Quindi studiò la biochimica e composizione del latte vaccino.
La composizione del latte vaccino
Il latte vaccino è composto da circa un 87% di acqua e un 13% da solidi:
– grassi (panna)
– minerali
– solidi lattei, rappresentati dagli zuccheri (lattosio) e dalle proteine, che sono: l’alfa-caseina, la beta-caseina, la kappa-caseina e le proteine sieriche. La beta-caseina è la proteina presente nella percentuale maggiore.
La beta-caseina
Ci sono due principali tipi di proteina beta-caseina, note come A1 e A2. Esistono anche altre varianti minori oltre a questi due tipi, ma attualmente non sono conosciuti.
Le beta-caseine trovate nel latte vaccino sono composte da 209 aminoacidi in una sequenza fissa e la differenza tra tipo A1 e A2 sta in un singolo aminoacido. Infatti mentre il latte A1 ha un aminoacido istidina in posizione 67, il latte A2 in quella posizione ha una prolina.
La prevalenza tra la proteina beta-caseina A1 e A2 varia dalla razza delle mucche e anche dalla regione. Nel mondo occidentale è diffuso il tipo A1, dalla sottospecie Bos taurus (foto 1 nel libro).
Le vacche asiatiche della sottospecie Bos indicus (foto 2 nel libro) non producono invece beta-caseina di tipo A1.
Le vacche africane (foto 3 nel libro), anche se sono soprattutto Bos taurus, non producono comunque beta-caseina A1.
Gli scienziati ipotizzano che circa 8000 anni fa sia avvenuta una mutazione aminoacidica in posizione 67, dove la prolina è stata sostituita dall’istidina.
Ad oggi è noto che due meccanismi patogenetici principali della relazione tra latte vaccino e diabete mellito di tipo 1 sono:
– l’attività oppioide della beta-casomorfina-7, che compromette lo sviluppo dell’immunità intestino-associata
– il mimetismo molecolare tra la beta-caseina e un epitopo del trasportatore GLUT-2, con il conseguente sviluppo di autoanticorpi capaci di colpire le cellule-beta del pancreas.
L’attività oppioide della beta-casomorfina-7
Bob Elliott volle investigare se il rischio di sviluppare diabete di tipo 1 dipendesse dalla quota di latte che era stato bevuto e dalla proporzione della proteina A1 nel latte. Il fattore di rischio sarebbe quindi la quota di latte moltiplicato per il proprio contenuto di A1.
Egli studiò il problema con un approccio epidemiologico, confrontando l’incidenza della patologia con l’assunzione di latte A1 e A2 per ciascuna regione (figura 4).

Figura 4: Incidenza del diabete mellito di tipo 1 e introito di proteine del latte, da Laugesen e Elliott, New Zealand Medical Journal 116 (1168), 2003.
L’84% della variazione dell’incidenza del diabete può essere spiegata dalla variazione dell’introito di beta-caseina A1. E’ una relazione molto forte. Il grafico è simile comprendendo o meno nell’analisi il formaggio.
Bob Elliott fece uno studio su animali, aiutato dal Dr. Jeremy Hill, in cui somministrò i due diversi tipi di beta-caseina a topi. I topolini nutriti con la beta-caseina di tipo A2 non svilupparono il diabete di tipo 1, mentre il 47% di quelli nutriti con il tipo A1 divennero diabetici dopo 250 giorni. Egli scoprì anche che somministrando il naloxone con la beta-caseina A1 questo effetto si annullava. Il naloxone è un antagonista degli oppiodi, ossia blocca l’effetto narcotico degli oppioidi.
La differenza tra beta-caseina di tipo A1 e A2, sta nel rilascio di una molecola chiamata beta-casomorfina-7 (BCM7), un potente oppioide già pubblicato nel 1985 (figura 5). Gli effetti negativi della beta-caseina A1 sarebbero correlate all’attività oppioide della BCM7.
Figura 5: il rilascio della BCM7.
Il latte umano contiene meno dell’1% della BCM7 contenuta nel latte vaccino di tipo A1.
I neonati possono assorbirla visto che le loro pareti intestinali permettono facilmente il passaggio di molecole grandi al flusso sanguigno.
Questa è la forma in cui sono capaci di assorbire il colostro della madre.
Dato che devono assorbire i complessi macromolecolari del colostro, i neonati hanno una mucosa intestinale assai permeabile, che li rende più suscettibili ai danni della BCM7.

(Figura 5: il rilascio della BCM7)
La BCM7 rappresenta un fattore infiammatorio sull’epitelio vascolare, stimola la produzione di muco dalle mucose ed ha affinità per i recettori μ e δ, esplicitando quindi attività oppioide.
David Chamberlain, dall’Istituto di Ricerca Hannah in Scozia, condusse un team di scienziati per osservare cosa accade quando le beta-casomorfine (inclusa la BCM7) vengono infuse direttamente nell’abomaso (una parte del rumine) delle vacche. Essi hanno trovato che le beta-casomorfine abbassano la risposta insulinica del pancreas e credono che questo dipenda direttamente da un effetto oppioide diretto.
La BCM7 inoltre ha una correlazione in diversi studi con il diabete di tipo 1, ipercolesterolemia, intolleranza al lattosio, alterazioni neurologiche come l’autismo, la sindrome di Asperger e la schizofrenia.
Il mimetismo molecolare tra la beta-caseina e un epitopo del trasportatore GLUT-2
La logica dietro quest’affermazione risiede nella in una sequenza di aminoacidi (un peptide) nella beta-caseina bovina che è molto simile con una sequenza aminoacidica contenuta nel GLUT-2, la molecola che trasporta il glucosio all’interno delle cellule-beta del pancreas (figura nel libro), che producono l’insulina. Infatti, la sequenza dei quattro aminoacidi (Prolina-Glicina-Prolina-Isoleucina) è identica.
Lo scienziato italiano Paolo Pozzilli ha suggerito che questa sequenza e i frammenti più lunghi di beta-caseina che la contengono “sono responsabili per l’induzione di una risposta immunitaria contro la caseina che, per cross-reattività, sarebbe diretta contro la sequenza omologa dei GLUT-2, causando danno alle cellule che producono l’insulina”.
Nel 1999, Pozzilli ha pubblicato una review che includeva la relazione tra diabete mellito di tipo 1 e le singole proteine del latte. Ha concluso che la beta-caseina era una delle responsabili più probabili. Ha riportato i risultati del suo laboratorio, con 51% di coloro che soffrivano di diabete mellito di tipo 1 mostravano linfociti T che erano sensibili alla beta-caseina, contro il 2,7% dei controlli non-diabetici. Egli ha anche trovato che il 37% dei diabetici di tipo 1 mostravano anticorpi anti-beta-caseina, mentre solo il 5,6% dei controlli aveva questi anticorpi.
Un anno dopo, alcuni scienziati di Francoforte, diretti da S. Padberg, pubblicarono i risultati dei test sugli anticorpi confrontati tra diabetici e non-diabetici, non solo per la beta-caseina, ma anche per il tipo A1 e A2. Trovarono che i diabetici hanno alti livelli di anticorpi contro la beta-caseina di tipo A1, mentre i non-diabetici hanno alti livelli di anticorpi contro la beta-caseina A2. I risultati erano significativi con p<0,001.
Quindi gli Autori conclusero che questo studio potrebbe confermare l’ipotesi che “nel diabete mellito di tipo 1 c’è una scarsa immuno-tolleranza al latte vaccino”, ossia il sistema immunitario confonde la BCM7 e le proprie molecole del trasportatore del glucosio GLUT-2. Dapprima il corpo produce anticorpi contro la BCM7 e poi, per errore, attacca anche le cellule-beta del pancreas, perché queste cellule sono produttrici di molecole con la stessa sequenza aminoacidica della parte terminale della BCM7.
La relazione patogenetica tra cereali e diabete mellito di tipo 1
Il problema dei cereali è correlato al glutine che contengono. Il glutine è la principale proteina nel grano, ed è anche presente nell’orzo e nella segale, ma non nel mais. E’ il costituente della farina che conferisce elasticità al pane quando lievita. A oggi sono conosciute due proteine del glutine: glutenina e gliadina. Quando la gliadina viene parzialmente digerita, può formare alcuni peptidi oppioidi, di cui il più importante è la gliadomorfina (nota anche come gliadorfina e gliadinomorfina).
Il punto importante della questione è che la gliadomorfina ha una struttura molto simile alla BCM7. Entrambe presentano 7 aminoacidi; entrambe hanno una tirosina seguita da una prolina; entrambe hanno una prolina in posizione 4 e 6. Nonostante alcune lievi differenze, gli scienziati le considerano omologhe, simili fra loro, soprattutto per il numero di patologie con cui pare siano correlate. Infatti, una delle strategie più raccomandate per ridurre il rischio di patologie auto-immuni nelle persone a rischio è mantenere un’alimentazione priva di caseina e priva di glutine (GFCF diet).
Perché l’incidenza di diabete mellito di tipo 1 sta aumentando?
Non esiste una risposta chiara a questa domanda, ma scienziati come Bob Elliott e Dr. Andrew Clarke della Corporazione A2 hanno ipotizzato che il motivo risieda nella glicazione della BCM7. Nel 2007, Bob Elliott pubblicò uno studio sulla rivista Medical Hypotheses. La glicazione è un processo in cui il glucosio e altri zuccheri reagiscono con le proteine, formando proteine modificate dallo zucchero, chiamate prodotti della glicazione avanzata (AGE). Gli AGE, secondo numerosi studi, sono correlati ad un vasto numero di malattie degenerative. La BCM7 glicata è uno di questi prodotti AGE, i cui livelli sono aumentati dai moderni processi alimentari, come il trattamento del latte a temperatura ultra-alta (UHT, molto comune in Europa), l’uso dell’acido ascorbico nei prodotti confezionati per il processo di conservazione in scatola e dal livello sempre maggiore di bibite zuccherate consumate dai bambini. Solo il tempo ci dirà se questa è la risposta.
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Tratto dal libro: “Diabete” di Marcello Pamio