LA MALATTIA COME BLOCCO DEL FLUSSO DI ENERGIA

La prospettiva energetico-spirituale è un modo prezioso e complementare di conoscere l’origine dei nostri disturbi e/o malattie.

Che la malattia sia un messaggio del corpo fisico, che ci dice che si è alterato un equilibrio, è banale e scontato. Non è invece banale sapere e comprendere che la causa non è esterna, ma interna e che quindi si può guarire. Virus e microbi ci colpiscono infatti dove e quando siamo più vulnerabili, non per cause genetiche, ma per cause interne, legate alle tensioni che creiamo dentro di noi quando facciamo scelte o prendiamo decisioni che non ci fanno sentire bene.

Questo succede quando non ascoltiamo la nostra guida interiore, alterando di conseguenza il nostro equilibrio energetico. La tecnica energetico-spirituale parte dalla considerazione che, a monte della malattia, ci sia un blocco energetico, un blocco del flusso di energia, un disequilibrio che genera la malattia, la quale si localizza proprio dove avviene tale blocco. Per spiegare il nostro sistema energetico, dobbiamo prima capire che l’unità infinitesimale di ogni cellula è energia, di cui il tessuto, l’organo, il corpo fisico sono la parte più densa, ovvero quella che vediamo. Tutto ciò non è invenzione, bensì scienza, quella quantistica.

 I “motori” che regolano il flusso del nostro sistema energetico sono i chakra. La funzione dei chakra è simile a quella del cuore: regolare il flusso dell’energia nel nostro sistema energetico, che è governato dalla coscienza. E’ importante sottolineare che, in questo contesto, il significato di coscienza è esteso a tutto ciò che possiamo sperimentare a livello fisico, emotivo, mentale e spirituale nella nostra esistenza.

Tutto procede bene se le decisioni che prendiamo sono coerenti con la nostra essenza, con il nostro progetto intimo di vita, ma se non ci ascoltiamo, se neghiamo la nostra essenza, iniziano a sorgere problemi. “Può accadere, ad esempio, che per una decisione errata si crei un blocco, una tensione. Da quel momento in avanti la nuova configurazione della nostra energia funzionerà come una calamita, attirandoci esperienze che confermano la tensione originaria” ci racconta Rossella Panigatti, studiosa e praticante della tecnica.

Conoscere i chakra diviene così indispensabile per capire la malattia e sbloccare il flusso energetico. Sottolinea ancora R. Panigatti: per riacquistare la salute, dobbiamo intraprendere un lavoro personale di ricerca, comprendendo ciò che stiamo facendo ‘contro di noi’ e, soprattutto, dobbiamo attuare una serie di cambiamenti nella nostra vita, lasciando andare quei modi di essere che ci creano tensione, ritrovando la nostra vera essenza. Dobbiamo semplicemente tornare ad essere noi stessi, e in questo cammino il sintomo è un nostro alleato, e ci aiuta.

Questo lavoro personale di ricerca, di collocazione del sintomo all’interno del sistema energetico, per essere ben capito, deve anche tenere in considerazione il lato, destro o sinistro, in cui la patologia si manifesta; questo aspetto è importante perché legato alla polarità Yin (delle emozioni) e Yang (della volontà).

I chakra sono i nostri centri energetici, sono sette e sono associati a specifici organi e parti del corpo. Il sintomo localizzato in una specifica parte del corpo è quindi rapportabile ad un blocco nel chakra corrispondente, per effetto di una decisione presa riguardante la nostra vita, che non è in sintonia con la nostra unicità ed essenza.
Da fisica quantistica

AFTE RICORRENTI… SE FOSSE CELIACHIA?

Pz: Dottore, probabilmente ho un dente spezzato. Periodicamente ho la guancia destra che si riempie di piccole lesioni. Sono dolorosissime…

D: Vediamo… non mi sembra. Tutti i suoi denti godono di ottima salute!
Pz: Allora sarà lo stress del lavoro. Ultimamente sono sempre più stanca e anche l’intestino fa capricci e…
D: Posso permettermi di consigliarle un prelievo ematico?
Pz: Ma lei è un dentista!?

Poche battute per introdurre un argomento oggi “di moda”: celiachia e dieta gluten free. Il dentista, protagonista del colloquio, ha sicuramente avuto una brillante quanto illuminata intuizione semplicemente ascoltando attentamente il racconto della paziente.

Le afte ricorrenti, meglio note ai professionisti del settore come stomatite aftosa, sono piccole ulcere (lesioni) ovali o rotonde, singole o multiple, con margini rilevati circondati da un alone arrossato e con una parte centrale di colore biancastro, che circa in una settimana regrediscono. Sono manifestazioni di una patologia immuno-mediata e possono essere avvisaglia di celiachia.
La celiachia, una patologia autoimmune geneticamente determinata, peculiare dell’età pediatrica è diagnosticata oggi anche nell’adulto e nell’anziano. Il distretto corporeo bersaglio della patologia e della sua sintomatologia è l’intestino, ma non solo. Diarrea, arresto della crescita, addome globoso ma anche poli-abortività, dolori addominali, alopecia, cefalea, rappresentano i sintomi più ricorrenti.

Nel caso della nostra protagonista, il binomio comprovato da numerosi studi scientifici è celiachia e afte. Poco si sa del meccanismo bio-molecolare che sottende alla relazione afte-celiachia non diagnosticata. Quello che si suppone è che la destrutturazione dei villi, strutture deputate all’assorbimento, peculiare della celiachia porti a carenza di ferro, vitamina B12 e acido folico. La mancanza di questi micronutrienti faciliterebbe la formazione di afte. L’evidenza clinica di correlazione e il riscontro della remissione delle lesioni quando si realizza l’alimentazione priva di glutine rendono queste lesioni un importante dato obiettivo e/o anamnestico nella diagnosi di celiaca.

Il giusto input per una corretta diagnosi è suggerire esami sierologici specifici:
– anticorpi anti-transglutaminasi IgA e dosaggio delle IgA sieriche
– anticorpi anti-gliadina deamidata (AGAD)
– anticorpi anti-endomisio (EmA).

Successivamente si inizierà una corretta alimentazione e un sano stile di vita che prevedono l’allontanamento del glutine, miscela proteica peculiare dei cereali e derivati.

Per approfondimenti:
Z Slebioda et al. Etiopathogenesis of recurrent aphthous stomatitis and the role of immunologic aspects: literature review. Arch Immunol Ther Exp. 2014 Jun; 62(3):205-15. doi: 10.1007/s00005-013-0261-y.

U Volta et al. The changing clinical profile of celiac disease: a 15-year experience (1998-2012) in an Italian referral center. BMC Gastroenterol. 2014 Nov 18;14:194. doi: 10.1186/s12876-014-0194-x.

K Cantekin et al. Presence and distribution of dental enamel defects, recurrent aphthous lesions and dental caries in children with celiac disease. Pak J Med Sci. 2015;31(3):606-9. doi:10.12669/pjms.313.6960.

Letizia Saturni – Da Nutrizione 33

SPIEGAZIONE PSICOSOMATICA DEI PROBLEMI ALLA TIROIDE

La tiroide è una ghiandola endocrina che regola tutto il metabolismo energetico attraverso la produzione di ormoni tiroidei, la triiodotironina (T3) e la tiroxina (T4). Questi ultimi, per essere prodotti, hanno bisogno della presenza di iodio e calcitonina; la sintesi e la secrezione di queste sostanze, a loro volta, è regolata da due ghiandole posizionate nel cervello, l’ipotalamo (ormoni TRH) e l’ipofisi (ormoni THS).

Questo complesso meccanismo di interconnessioni svela l’importanza della tiroide; gli ormoni tiroidei hanno un’azione specifica sul sistema nervoso, così come le reazioni emozionali (tensione e stati ansiosi) influiscono sull’alterazione della secrezione ormonale.

Patologia tiroidea in chiave psicosomatica

La localizzazione della tiroide vicino alla gola rimanda a quegli aspetti della coscienza che si riferiscono all’ ”esprimere” e al “ricevere”; quest’ultimo tema, molto ampio e complesso, racchiude sia le cose materiali che l’affettività assimilata.
In tutte le patologie tiroidee c’è uno stretto legame con la relazione materna; alla base dello squilibrio psicosomatico emerge un vissuto angosciante caratterizzato da una madre assente e abbandonica che non viene, però, messa in discussione. La mancata elaborazione si traduce in due squilibri funzionali, entrambi riflessi di una “rivolta” interiore nei confronti della frustrazione d’amore: una risposta “in eccesso”, come avviene nell’ipertiroidismo, in cui il dolore represso esplode, e una di rinuncia e paura dell’autonomia, espresse nell’ipotiroidismo, generate dalla sofferenza profonda e dalla sensazione di non meritare amore.

Ipotiroidismo, sintomi

L’ipotiroidismo è una patologia causata da una ridotta funzionalità della tiroide, che, per una serie di fattori, produce una quantità di ormoni tiroidei troppo bassa e non adeguata alla “richiesta” dell’organismo. La riduzione della concentrazione dell’ormone tiroideo produce un rallentamento di tutti i processi fisiologici del corpo.

I sintomi principali di questa patologia sono astenia, scarsa concentrazione, ipotensione, torpore psicofisico, intolleranza al freddo per rallentamento metabolico, aumento di peso, senso di gonfiore, bassa frequenza del cuore (bradicardia), problemi di memoria e di concentrazione. Il sottocutaneo si gonfia di liquido, fenomeno che genera l’aspetto tipico del volto, detto mixedema (presente anche nel bambino): palpebre tumefatte, volto largo, pelle secca fredda e desquamata, colorito cereo, sguardo inespressivo e rigido, lingua e naso ingrossati.

Altri disturbi comuni sono stipsi, edema agli occhi, alle mani e ai piedi, crampi muscolari, assottigliamento e perdita dei capelli, aumento del volume della tiroide (gozzo). A livello psichico le manifestazioni più frequenti sono apatia, depressione, lentezza nel pensiero.

Interpretazione psicosomatica dell’ipotiroidismo

Per comprendere la dimensione simbolica dell’ipotiroidismo, bisogna partire da un sintomo chiave della patologia, il rallentamento fisico e psichico. Quando all’interno del soggetto avviene una ribellione nei confronti di uno stile di vita che non vuole più accettare, la psiche smette di affrontare la realtà in quella modalità; decide di farlo attraverso il corpo, con sintomi significativi come staticità, ristagno dell’energia vitale, aumento di peso, stanchezza, lentezza nel linguaggio, apatia, difficoltà di concentrazione, esaurimento. Chi si ammala di ipotiroidismo ha la sensazione di “affondare” nel proprio corpo e in tutto se stesso, meccanismo simile a quello che si verifica nello stato depressivo.

L’ipotiroidismo insorge dopo eventi traumatici che hanno fatto perdere alla persona il senso della quotidianità oppure che sono in forte contrasto con ciò che il soggetto desidera e vuole. Il “no” inconscio che il soggetto vorrebbe dire diventa passività, resa, rinuncia. Il danno metabolico, caratterizzato da una diminuzione del livello di energia e di calore prodotto dal corpo, rappresenta l’origine del disagio profondo di questi soggetti, che non riescono ad opporsi con forza e autonomia a quei meccanismi disfunzionali che vengono vissuti come “dogmi sociali”. L’ipotiroideo soffre di una grande paura, quella di non meritare nulla, soprattutto l’amore degli altri. È proprio il timore di non essere amati a bloccare la reazione, l’affermazione che potrebbe generare dispiacere nell’altro.

L’ipotiroidismo si instaura quando il soggetto decide di non esprimersi in alcuni o in tutti gli aspetti della vita, come quello dell’affettività o della sessualità. Nei casi più avanzati della patologia, si verifica un fenomeno tipico dell’insufficienza tiroidea denominato mixedema, una particolare forma di rigonfiamento dei tessuti che si manifesta con viso gonfio, rigido e fisso, pelle secca, ptosi palpebrale (una o entrambe le palpebre sono più abbassate rispetto al loro livello normale). L’aspetto tipico del volto simboleggia la maschera che il soggetto indossa impedendosi di essere se stesso.

Le personalità più soggette all’ipotiroidismo sono quelle con una depressione mascherata, che vivono una situazione esistenziale critica, oppure, più in generale, hanno uno stile di vita che rifiutano ma a cui non riescono ad opporsi. Il rallentamento di tutte le funzioni vitali simboleggia un’energia che resta bloccata, che “ristagna”, così come avviene per i liquidi corporei che gonfiano i tessuti. In particolare l’apatia indica un “ritiro” emotivo dalla realtà quotidiana, un’incapacità di affermazione di sé legata d un profondo senso di insicurezza e non riconoscimento del proprio valore. Molto spesso l’ipotiroideo è vissuto in un contesto familiare che non gli ha consentito di svincolarsi, di evolvere nell’autonomia.
I sintomi, che si riconducono quasi sempre ad una debolezza del corpo, mostrano una mancanza di forze che rende impossibile l’azione verso le soluzioni e, quindi, verso la vita.

Ipertiroidismo sintomi

L’ipertiroidismo è una condizione patologica in cui la tiroide lavora più del dovuto, producendo un’elevata quantità di ormoni tiroidei nell’organismo.
L’eccesso di ormoni comporta un’accentuazione e un’accelerazione di tutti i processi metabolici, producendo una sintomatologia complessa che coinvolge molti apparati. La patologia inizia con sintomi tipici come nervosismo, palpitazioni, forte dimagrimento, aumento della sete, diarrea e si aggrava progressivamente nel giro di poche settimane.

Ai sintomi iniziali si aggiungono quelli relativi ad un’iperattività generale dell’organismo: aumento della temperatura corporea, della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa, intolleranza al caldo, stanchezza muscolare. L’eccitabilità coinvolge anche il sistema nervoso causando tremori agli arti, irrequietezza, insonnia, disturbi endocrini e sessuali (irregolarità mestruali nelle donne ed eiaculazione precoce negli uomini). Come nell’ipotiroidismo, anche nell’ipertiroidismo il volto del malato ha una fisionomia tipica con globi oculari sporgenti (esoftalmo) e occhio lucente, rima palpebrale dilatata, sguardo fisso e spaventato, cute arrossata e sudata.

Interpretazione psicosomatica dell’ipertiroidismo

L’ipertiroidismo è intriso di simbolismi, primo fra tutti quello di un’eterna “fuga in avanti” (da qui l’accelerazione espressa dai sintomi) alla ricerca, da un lato, di un’autonomia quotidiana racchiusa nel “fare”; dall’altro, di un tentativo di colmare il vuoto che si sente dentro “tamponandolo” con una vita dal ritmo accelerato e con rapporti pieni e simbiotici. Il vuoto corrisponde all’angoscia di morte e al terrore di sentirsi annientati.

Un sintomo comune dell’ipertiroidismo, l’esoftalmo (occhi sporgenti) rappresenta perfettamente questo terrore profondo. Anche qui, le cause di tali meccanismi psichici si possono rintracciare nell’infanzia e nell’adolescenza. Mentre nell’ipotiroidismo il ruolo genitoriale è stato inibente per lo sviluppo di sé e dell’autonomia, nel vissuto dell’ipertiroideo c’è un bambino che ha avuto una maturazione precoce, per concrete necessità o per aspettative genitoriali, che è stato privato della naturale e necessaria fase di dipendenza affettiva fatta di sostegno, approvazione, calore, affetto.

Questo “salto” si traduce, nella fase adulta, in una difficoltà a chiedere o a manifestare il bisogno emotivo e affettivo, esperienza che rievocherebbe l’idea della dipendenza frustrata. Queste interpretazioni si rivelano ancora più vere quando si studiano le fasi d’insorgenza della malattia; in moltissimi casi di soggetti adulti, l’ipertiroidismo si manifesta in seguito a traumi da perdita di elementi di autosufficienza (figure di riferimento, lavoro, casa, patologie che obbligano a richieste d’aiuto).

Come per tutte le altre patologie, ci sono sempre delle tipologie di personalità più a “rischio” di manifestare una determinata malattia o disturbo. Molto spesso gli ipertiroidei sono persone che hanno paura di fermarsi, di rallentare su tutti i piani della vita; si sentono vive solo se agiscono, intensamente e di fretta. Cercano continuamente consigli (che tuttavia non riescono a seguire), vogliono l’autonomia a tutti i costi ma dentro hanno un enorme bisogno dell’approvazione altrui.

Il disturbo è prevalente nelle donne tra i 20 e i 50 anni d’età, e insorge soprattutto in quelle persone che sono cresciute in fretta o sono state sottoposte a carichi non adatti alla loro età. Molto spesso gli ipertiroidei hanno perso i genitori.

Ana Maria Sepe da Psicoadvisor

STRETTA CORRELAZIONE FRA CELIACHIA E PATOLOGIE AUTOIMMUNI DEL FEGATO

Abbiamo parlato della relazione fra glutine, celiachia e salute del fegato con il dott. Marco Silano, direttore del Reparto di alimentazione, nutrizione e salute dell’Istituto superiore di sanità e coordinatore del Board scientifico dell’Associazione italiana celiachia (Aic).

Parliamo della relazione fra celiachia e salute del fegato: a che punto è la ricerca?
È ormai consolidata la consapevolezza che elevati valori plasmatici di transaminasi possono essere un segno di celiachia e segnalare la necessità di un approfondimento in tal senso. In effetti oggi più del 20% dei pazienti celiaci alla diagnosi presentano livelli di transaminasi sopra la norma, per cui oggi l’ipertransaminasemia è vista giustamente come un campanello d’allarme e fra tutti gli esami che il medico deve prescrivere c’è anche la ricerca degli anticorpi specifici per la celiachia.

Come vengono interpretati questi valori?
Sono un sintomo di celiachia non trattata. Infatti dopo circa 6 mesi/un anno di dieta senza glutine nella maggior parte dei pazienti i valori tornano nella norma. Il problema invece riguarda quella piccola parte di celiaci, che nonostante la dieta, continuano a far registrare livelli elevati di transaminasi. Questi sono i soggetti su cui la ricerca si sta concentrando: quelli ai quali il glutine provoca un danno permanente al fegato.

Di che tipo di danno si tratta?
Nella maggior parte dei casi, nel momento in cui si elimina il glutine dalla dieta anche il suo effetto tossico sul fegato piano piano viene meno. In alcuni pazienti invece i livelli di transaminasi che rimangono elevati dopo una dieta senza glutine sono il sintomo di un danno permanente al fegato dovuto a un’epatite auto-immune, che si innesca proprio a causa del glutine che attacca non solo l’intestino, ma colpisce anche il fegato e le vie biliari.

C’è una connessione fra patologie autoimmuni e microbioma intestinale?
Al momento attuale, la ricerca scientifica ha ipotizzato un nesso tra microbioma intestinale – permeabilità intestinale e malattie autoimmuni e degenerative. Nello specifico della malattia celiaca, tuttavia, non ci sono ancora evidenze sperimentali che indichino con certezza che le modifiche del microbioma siano responsabili dello sviluppo di questa condizione.

Come si procede dunque con i pazienti con epatite?
I pazienti vengono seguiti nel tempo con monitoraggi periodici della funzionalità epatica nel suo complesso. Si prendono poi provvedimenti terapeutici ad hoc in funzione degli esiti delle analisi. Spesso le patologie autoimmuni del fegato coinvolgono anche le vie biliari, come nel caso per esempio delle colangiti sclerosanti. Queste condizioni possono in casi molto rari determinare quadri clinici gravi, fino all’insufficienza epatica.

Francesca De Vecchi
da Nutrizione 33

L’ATTACCO DI PANICO. DAL SINTOMO ALLA COMPRENSIONE

Parlare di “attacco di panico” vuol dire affrontare lo spettro della dissoluzione, della frantumazione della propria identità, delle certezze e delle difese che fino a quel momento hanno sorretto l’individuo e gli hanno permesso di mantenersi in un delicato equilibrio tra angosce e sicurezze. L’attacco di panico è una esperienza acuta e improvvisa di forte angoscia che, nonostante la natura transitoria, produce sensazioni intense, incombenti e dolorose. Il panico evidenzia lo stretto rapporto tra mente e corpo. È quest’ultimo a reagire, ad urlare con forza le proprie tragiche paure. Lo fa attraverso una sintomatologia fisica caratterizzata da senso di soffocamento, tachicardia, intensa sudorazione spesso associata a sensazioni di freddo, vertigini, tremore, dolore o fastidio al petto, nausea.

Sembra che oggi, nella nostra società ‘liquida’, il corpo abbia subito un’altra – l’ennesima – rimozione, sia stato nuovamente ‘inscatolato’ e reso ostaggio di logiche di consumo dove si afferma sempre più l’equivalenza corpo = merce.  Non è un caso allora se oggi assistiamo a problematiche in cui il corpo ed il corporeo si fanno contenitore ed ultimo ricettacolo di quelle istanze esistentive negate, respinte e forcluse a livello psichico. (Fernando Maddalena)

La nostra esistenza si delinea all’interno di una matrice culturale di riferimento, con le sue pressioni e le sue aspettative. L’essere umano è da subito immerso in un sistema di relazioni, attraverso le quali struttura il proprio senso di sé e la sua sicurezza di base. Le figure di riferimento genitoriali, in questo contesto, sono le primissime forme di interazione e confronto con le quali l’individuo si relaziona. Dall’incontro e dallo scontro con le aspettative dell’esterno vengono ridefinite, e spesso stravolte, le caratteristiche intrinseche dell’individuo, in una continua negoziazione tra bisogni di sicurezza ed accudimento e necessità di autorealizzazione, libertà, autenticità ed indipendenza.

L’individuo sofferente, è infine costretto da più fronti a ricorrere alla fantasia per sentirsi intero, per sperimentare un sé solo in apparenza coeso, abile a fronteggiare le difficoltà ambientali, costruisce una sua immagine idealizzata. Questa costruzione fittizia è qualcosa di molto lontano dalla dimensione reale, ma comunque utile all’individuo per sopravvivere all’angoscia di base che minaccia il senso profondo dell’esistere. La caratteristica peculiare della immagine idealizzata è quella della staticità, per cui è quasi impossibile per il soggetto tendere al cambiamento e men che meno alla messa in discussione delle proprie aree grigie. Essa è una immagine fissa da idolatrare e non un ideale da perseguire con innumerevoli sforzi.

“Gli ideali genuini conducono all’umiltà, l’immagine idealizzata all’arroganza” scrive Karen Horney.

La funzione fondamentale dell’immagine idealizzata è dunque quella di sostituire alla fiducia di sé una fiducia fittizia che porta il soggetto alla dipendenza dalle richieste esterne, piuttosto che dalla sana attitudine all’autorealizzazione spontanea e creativa, che si esplicita nella tendenza a cercare di governare la propria vita. In questo contesto il mondo è visto come minaccioso e ostile e l’immagine ideale trae da questa visione maggiore linfa vitale per attecchire e svilupparsi. Quando il mondo esterno viene percepito come eccessivamente ostile, foriero di esperienze di abbandono e rifiuto, è necessario adattarvisi in maniera coatta, rigida ed inautentica. È questo il preludio per la formazione di strutture nevrotiche cristallizzate, schemi di relazione disfunzionali ed impoveriti, immagini di sé in relazione all’altro poco negoziabili e ridefinibili. Winnicott, Karen Horney ed altri autori parlano di “Falso Sé” ad indicare una costruzione rigida che imbriglia la personalità all’interno di schemi predefiniti, limita la sperimentazione e la scoperta, uccide i desideri reali e le aspirazioni, esaspera una forma di adattamento all’ambiente per nulla creativo, nel quale l’universo emotivo è impoverito, ingabbiato e lontano dalla sua reale possibilità di espressione vitale.

La più importante delle radici degli attacchi di panico è costituita dall’incapacità di percepire e riconoscere le emozioni, come conseguenza di una specie di “analfabetismo emozionale”, che si è strutturato progressivamente nel corso della vita, di pari passo con la strutturazione del Sé. Il paziente, non riuscendo a riconoscere l’emozione come un accadimento mentale unitario, percepisce slegate fra loro le singole espressioni fisiche di essa. È come se percepisse slegate tra loro le tessere di un mosaico. Non possono che apparirgli del tutto prive di senso. Ma il “mosaico”, che lui non riesce a integrare, e di cui non ha consapevolezza perché neppure lo percepisce, non è esterno a lui. Lo riguarda direttamente. È dentro di lui. Sensazioni, quindi, fortissime e insensate. (Paolo Roccato)

La psicoanalisi contemporanea  vede l’attacco di panico come una espressione vitale di ciò che ancora rimane di autentico nell’individuo. Una espressione del “Vero Sé”, intrappolato e ferito, ma non ancora sconfitto. Può sembrare paradossale, ma è assolutamente importante leggere l’esperienza del terror panico come un tentativo disperato e certamente destabilizzante per urlare con forza il proprio disagio, per riconnettersi con le parti vitali presenti in dentro di sé.  La crisi di panico mette l’individuo di fronte al fallimento della struttura difensiva, evidenzia cioè una fondamentale fragilità del Sé in termini di non acquisizione di uno stabile senso di identità soggettiva…

Di Fabio Masciullo

 

RABBIA E FEGATO

La rabbia: questo sgradevole compagno di viaggio

Ero arrabbiato con il mio amico. Glielo dissi e la rabbia finì. Ero arrabbiato con il nemico. Non ne parlai, e la rabbia aumentò.” (William Blake)

Tutti gli psicologi sono concordi: la rabbia è un’emozione tipica e fondamentale, è identificabile sempre in una specifica origine funzionale ed è presente in tutte le età e i momenti evolutivi dell’uomo.

Insieme alla gioia e al dolore è una delle emozioni che si manifesta nell’uomo fin dai primordi e lo accompagnerà tutta l’esistenza. Insieme al disgusto e al disprezzo fa parte della triade dell’ostilità.

Sulla base di questo pensiero, come è possibile che un neonato possa già manifestare rabbia? Secondo le neuroscienze la situazione scatenante non è mai singola, ma plurima, e sempre riconducibile ad un insieme di frustrazioni sia fisiche che psicologiche.

Tra le varie circostanze che possono influire nel fare nascere l’impulso della rabbia gioca un ruolo predominante quello dell’intenzione da parte di qualcosa o qualcuno nell’impedimento a raggiungere uno scopo.

Ma come nasce la rabbia e come si scatena? In primo luogo la persona vive lo stato di raggiungere uno scopo o un obiettivo come un bisogno fondamentale. L’appagamento che pensa di ricevere dal risultato di questa situazione è senza dubbio enorme al punto da farglielo considerare vitale. Spesso la persona che si impegna in un processo complesso non distingue più le sfumature delle varianti che possono subentrare nel processo stesso: tutto è “o bianco o nero”; non esistono vie di mezzo e chi si frappone al raggiungimento di questo obiettivo è sempre visto come un nemico.

Molti obiettivi, soprattutto se fissati senza un piano realistico non potranno mai realizzarsi. È il caso di obiettivi troppo alti rispetto alle capacità, conoscenze, professionalità di chi li persegue. Il risultato è scontato: solo una grandissima fortuna può permettere che quanto desiderato si realizzi. Nel frattempo, tutto quello che è tra l’obiettivo sperato e il suo raggiungimento non è mai visto come un’opportunità di crescita e miglioramento, ma come un puro e semplice impedimento. A volte può essere una situazione, a volte una persona, altre entrambe le cose. Sta di fatto che il meccanismo che scatta nella mente della persona è quello di poter identificare in un oggetto, situazione o persona la causa che impedisce la propria realizzazione.

Definire un nemico, soprattutto fisico, è determinante per qualsiasi strategia: spesso chi è accecato dalla voglia di arrivare ad un punto ben preciso non è in grado di determinare nemmeno la portata della causa scatenante l’impedimento stesso. Ciò che impedisce la realizzazione dell’obiettivo va fermato con tutti i mezzi in ogni modo. Ne nasce una forza enorme legata a una altrettanto smisurata intenzione di attaccare. Se nel frattempo non succede qualcosa che possa sbloccare favorevolmente l’evento, il risultato è scontato: l’attacco avviene in modo palese, diretto e spesso violento. Molte persone, che non sanno contenere la rabbia, arrivano addirittura allo scontro fisico con conseguenze devastanti e spesso irreparabili.

A volte il danno diventa irreparabile già sotto il profilo psicosomatico. Ciò avviene quando la causa frustrante viene minimizzata o addirittura mascherata. Tutta l’energia che dovrebbe essere convogliata verso l’esterno è trattenuta all’interno.

Le filosofie orientali insegnano che quando un’energia non trova il normale sfogo, questa va a danneggiare il sistema provocando in una prima fase stati di disagio per arrivare poi alla malattia vera e propria. Al contrario è anche sbagliato pensare che per prevenire tutto questo si possa dare libero sfogo a tutte le emozioni senza tenere conto dei normali interlocutori. Questa fase è definita gestione della rabbia e potrebbe ricadere su qualcosa di diverso rispetto alle cause scatenanti la frustrazione o, peggio ancora, su se stessi con fasi di autolesionismo profondo.

Direi che la rabbia è proprio una brutta compagna di viaggio e, se torniamo al nostro legno possiamo solo aggiungere che per essere in equilibrio non deve essere minacciato nella sua crescita interna ed esterna: è come se l’albero debba avere normali agenti patogeni, ma la corretta capacità di reazione ad ognuno di essi senza che nessuno possa prevaricare.

Con la rabbia in corpo

“Facili all’ira sopra la terra siamo noi di stirpe umana”. (Omero)

Denti serrati, mascelle irrigidite, sopracciglia aggrottate, occhi piccoli e pupille dilatate sono solo il segno esteriore dell’elemento rabbia. Spesso sono accompagnate da una posizione curva verso l’interlocutore e da pugni chiusi, pronti a colpire. Tutti i muscoli del corpo diventano rigidi al punto da provocare anche la completa immobilità della persona mentre il cuore batte forte.

Chi ci è passato racconta di aver vissuto la paura di perdere il controllo e di aver sentito un forte impulso violento accompagnato da calore. La voce diventa intensa con un tono stridulo e pieno di minaccia.

Questo è ciò che prova una persona in preda alla rabbia nel momento in cui non riesce più a mascherarla, chi invece non la esprime la vivrà e rivivrà dentro di sé per un periodo molto più lungo.

La realizzazione di sé in una determinata situazione è nell’uomo un obiettivo pregnante: parlarne e riconoscere le vere motivazioni della sconfitta è la procedura più utile per avviare un processo di cambiamento, ma di certo non basta.

In ogni conflitto tutti vogliono vincere e difficilmente si sceglie la via della mediazione. I saggi dell’ebraismo e i kabbalisti la chiamano proattività. Questa si basa sulla semplice logica di buonsenso che non si può vincere sempre e tutto, ma che bisogna anche sapere perdere perché proprio da questa azione è possibile imparare, apprendere, e fare tesoro di nuove strategie ed azioni.

I pericoli esterni rimangono comunque molti: uno di questi è accorgersi, per esempio, che altri ottengono facilmente successi senza uno sforzo apparente e quindi si è portati, anziché ad analizzare i fatti in modo obiettivo, a riportarli su un piano personale perdendo la logica dei fatti e confondendoli con le opinioni.

È il momento dell’intolleranza verso tutti e tutto e nessun luogo è immune. Arrabbiarsi fa parte della natura umana, non è pericoloso, è normale. Il problema è quando questa rabbia più o meno inespressa si sfoga come un torrente in piena aggredendo tutto e tutti, senza alcuna esclusione.

E come insegnano molte filosofie orientali il primo a soffrirne è il nostro fegato: per la tradizione cinese il fegato è collegato all’energia cosmica del vento perché un fegato in salute è in grado di muoversi sempre in modo armonioso così come una pianta si lascia accarezzare dal vento.

Il fegato silenzioso

“L’espressione è l’atto dell’uomo completo. L’intelletto è impotente a esprimere il pensiero senza l’aiuto del cuore, del fegato e di ogni organo” Henry David Thoreau (filosofo)

Il fegato è l’organo più grosso del corpo umano, pesa circa 1,5 kg nell’uomo adulto e non a caso Rudolf Steiner, fondatore della Medicina Antroposofica lo riteneva l’organo della “volontà”. Il fegato nella visione di Steiner lavora moltissimo nelle fasi di progettazione, pianificazione, trasformazione della vita. È il fegato che realizza concretamente le idee trasformandole in azioni ed è sempre il fegato che crea nelle persone il coraggio.

Il fegato è un organo silenzioso: duole solo quando le patologie sono in stadio avanzato. I maestri di riflessologia comunque insegnano a leggere il malessere del fegato attraverso piccoli segni quotidiani quali un dolore persistente sul lato destro della schiena, amaro in bocca, vomito verdastro, emicrania spesso accompagnati anche da crampi agli arti inferiori.

Per i taoisti il fegato gioca un ruolo preponderante perché favorisce lo stoccaggio degli elementi nutritivi regolando così l’energia necessaria all’attività generale del corpo; crea nella persona la capacità alla resistenza durante la malattia sbloccando e muovendo le energie che sono necessarie ai meccanismi di autodifesa. Altra funzione è di aiutare nella decomposizione del cibo e nella disintossicazione del sangue. Per questa ragione in molte filosofie orientali è legato a sentimenti e affetti: il sangue trasporta emozioni e se questo non è purificato anche la qualità delle emozioni stesse sarà pessima alterando i sentimenti ad essa correlati.

La qualità dell’energia prodotta dal fegato avviene attraverso diversi sistemi quali il drenaggio delle tossine, la regolarizzazione della coagulazione del sangue e del metabolismo: le emozioni vengono trasformate in sentimenti dal fegato grazie alla sua azione di depurazione e filtraggio.

Mal di fegato

“La malattia è un avvertimento che ci è dato per ricordarci ciò che è essenziale”. (Libro della saggezza tibetana)

I problemi epatici ci indicano tutto ciò che è difficile “digerire” nella nostra vita anche se in modo differente da come lo fa lo stomaco.

Come abbiamo visto l’emozione principale legata al fegato è la rabbia: il modo in cui noi reagiamo alle differenti situazioni della vita può aiutare il nostro fegato e di conseguenza il nostro organismo.

Differentemente da quello che normalmente si pensa non è urlando o reagendo in modo esagerato che aiutiamo il nostro fegato a scaricare la rabbia che abbiamo in corpo. Agendo infatti in questo modo priviamo il nostro fegato di moltissima energia. Al contrario anche reprimendo continuamente la nostra rabbia addenseremo tutte le energie nell’organo stesso col rischio che si trasformino in patologie.

Nelle filosofie orientali le malattie del fegato vengono sempre collegate alla difficoltà ad affrontare la vita proprio partendo dall’accettazione dei nostri sentimenti: l’immagine che trasmettiamo agli altri è quella che noi abbiamo di noi stessi e dipende dal nostro fegato e da come lo aiutiamo a trasmettere energie positive prima a noi stessi e poi agli altri.

Sempre per le filosofie orientali le tensioni del fegato possono rappresentare l’immagine di noi stessi messa costantemente in discussione. Non si tratta di voler attuare un positivo e propositivo piano di miglioramento continuo, ma al contrario, è sviluppare un atteggiamento che porta alla creazione di acredine, acidità, rimorsi esagerati che sfociano in risentimenti , rabbia e via via fino a collera e ira.

La gioia della vita lascia così il posto all’astio che diventa una costante che può arrivare a distruggerci. Come?

Dobbiamo ricordare che il fegato è protagonista nella creazione del nostro sistema immunitario passando dalle esperienze che il nostro organismo ha elaborato nel tempo. Quando noi cediamo alla rabbia, non trovando altro mezzo, attiviamo un sistema di difesa psicologica in relazione alle nostre paure e inconsapevolmente, distruggendo il senso di calma rompiamo quell’equilibrio di cui il nostro fegato necessita per svolgere bene la sua funzione.

Da Olos e Logos rivista di Medicina Integrata

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