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Parlare di “attacco di panico” vuol dire affrontare lo spettro della dissoluzione, della frantumazione della propria identità, delle certezze e delle difese che fino a quel momento hanno sorretto l’individuo e gli hanno permesso di mantenersi in un delicato equilibrio tra angosce e sicurezze. L’attacco di panico è una esperienza acuta e improvvisa di forte angoscia che, nonostante la natura transitoria, produce sensazioni intense, incombenti e dolorose. Il panico evidenzia lo stretto rapporto tra mente e corpo. È quest’ultimo a reagire, ad urlare con forza le proprie tragiche paure. Lo fa attraverso una sintomatologia fisica caratterizzata da senso di soffocamento, tachicardia, intensa sudorazione spesso associata a sensazioni di freddo, vertigini, tremore, dolore o fastidio al petto, nausea.

Sembra che oggi, nella nostra società ‘liquida’, il corpo abbia subito un’altra – l’ennesima – rimozione, sia stato nuovamente ‘inscatolato’ e reso ostaggio di logiche di consumo dove si afferma sempre più l’equivalenza corpo = merce.  Non è un caso allora se oggi assistiamo a problematiche in cui il corpo ed il corporeo si fanno contenitore ed ultimo ricettacolo di quelle istanze esistentive negate, respinte e forcluse a livello psichico. (Fernando Maddalena)

La nostra esistenza si delinea all’interno di una matrice culturale di riferimento, con le sue pressioni e le sue aspettative. L’essere umano è da subito immerso in un sistema di relazioni, attraverso le quali struttura il proprio senso di sé e la sua sicurezza di base. Le figure di riferimento genitoriali, in questo contesto, sono le primissime forme di interazione e confronto con le quali l’individuo si relaziona. Dall’incontro e dallo scontro con le aspettative dell’esterno vengono ridefinite, e spesso stravolte, le caratteristiche intrinseche dell’individuo, in una continua negoziazione tra bisogni di sicurezza ed accudimento e necessità di autorealizzazione, libertà, autenticità ed indipendenza.

L’individuo sofferente, è infine costretto da più fronti a ricorrere alla fantasia per sentirsi intero, per sperimentare un sé solo in apparenza coeso, abile a fronteggiare le difficoltà ambientali, costruisce una sua immagine idealizzata. Questa costruzione fittizia è qualcosa di molto lontano dalla dimensione reale, ma comunque utile all’individuo per sopravvivere all’angoscia di base che minaccia il senso profondo dell’esistere. La caratteristica peculiare della immagine idealizzata è quella della staticità, per cui è quasi impossibile per il soggetto tendere al cambiamento e men che meno alla messa in discussione delle proprie aree grigie. Essa è una immagine fissa da idolatrare e non un ideale da perseguire con innumerevoli sforzi.

“Gli ideali genuini conducono all’umiltà, l’immagine idealizzata all’arroganza” scrive Karen Horney.

La funzione fondamentale dell’immagine idealizzata è dunque quella di sostituire alla fiducia di sé una fiducia fittizia che porta il soggetto alla dipendenza dalle richieste esterne, piuttosto che dalla sana attitudine all’autorealizzazione spontanea e creativa, che si esplicita nella tendenza a cercare di governare la propria vita. In questo contesto il mondo è visto come minaccioso e ostile e l’immagine ideale trae da questa visione maggiore linfa vitale per attecchire e svilupparsi. Quando il mondo esterno viene percepito come eccessivamente ostile, foriero di esperienze di abbandono e rifiuto, è necessario adattarvisi in maniera coatta, rigida ed inautentica. È questo il preludio per la formazione di strutture nevrotiche cristallizzate, schemi di relazione disfunzionali ed impoveriti, immagini di sé in relazione all’altro poco negoziabili e ridefinibili. Winnicott, Karen Horney ed altri autori parlano di “Falso Sé” ad indicare una costruzione rigida che imbriglia la personalità all’interno di schemi predefiniti, limita la sperimentazione e la scoperta, uccide i desideri reali e le aspirazioni, esaspera una forma di adattamento all’ambiente per nulla creativo, nel quale l’universo emotivo è impoverito, ingabbiato e lontano dalla sua reale possibilità di espressione vitale.

La più importante delle radici degli attacchi di panico è costituita dall’incapacità di percepire e riconoscere le emozioni, come conseguenza di una specie di “analfabetismo emozionale”, che si è strutturato progressivamente nel corso della vita, di pari passo con la strutturazione del Sé. Il paziente, non riuscendo a riconoscere l’emozione come un accadimento mentale unitario, percepisce slegate fra loro le singole espressioni fisiche di essa. È come se percepisse slegate tra loro le tessere di un mosaico. Non possono che apparirgli del tutto prive di senso. Ma il “mosaico”, che lui non riesce a integrare, e di cui non ha consapevolezza perché neppure lo percepisce, non è esterno a lui. Lo riguarda direttamente. È dentro di lui. Sensazioni, quindi, fortissime e insensate. (Paolo Roccato)

La psicoanalisi contemporanea  vede l’attacco di panico come una espressione vitale di ciò che ancora rimane di autentico nell’individuo. Una espressione del “Vero Sé”, intrappolato e ferito, ma non ancora sconfitto. Può sembrare paradossale, ma è assolutamente importante leggere l’esperienza del terror panico come un tentativo disperato e certamente destabilizzante per urlare con forza il proprio disagio, per riconnettersi con le parti vitali presenti in dentro di sé.  La crisi di panico mette l’individuo di fronte al fallimento della struttura difensiva, evidenzia cioè una fondamentale fragilità del Sé in termini di non acquisizione di uno stabile senso di identità soggettiva…

Di Fabio Masciullo

 

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