DISTURBI DIGESTIVI

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Dallo studio dei meccanismi fisiopatologici, l’elemento comune di questi disturbi sembra essere il contatto delle mucose con i succhi gastrici e con altre sostanze irritanti.
La soluzione più spesso proposta è l’inibizione della secrezione acida,  la quale comporta la rinuncia ai benefici apportati dalla presenza di acido nello stomaco.
Tra i farmaci più usati in farmacologia tradizionale nelle patologie acido-correlate si distinguono 3 gruppi fondamentali: gli inibitori della pompa protonica ( IPP ), gli antagonisti del recettote H2 dell’istamina e gli antiacidi.
Gli IPP sono i più potenti inibitori della secrezione acido-gastrica la cui produzione giornaliera è ridotta dell’80-95 %. Le molecole disponibili (omeoprazolo-lanzoprazolo-pantoprazolo ecc ) presentano caratteristiche farmacologiche simili e sono utilizzati principalmente nelle ulcere-gastroduodenali e nel trattamento del reflusso gastro esofageo.
Gli H2 antagonisti inibiscono la secrezione basale basale di circa il 70 % e appartengono a questa classe la cimetidina,la ranitidina,la famotidina ecc.
Gli antiacidi sono farmaci caratterizzati da un’azione rapida utile per l’uso occasionale nel trattamento della pirosi gastrica e i più comuni sono il bicarbonato, il carbonato di Calcio,gli idrossidi di alluminio e magnesio. Questi neutralizzano temporaneamente l’acido cloridrico presente nel lume gastrico.
Questo approccio porta alla drastica riduzione dell’acidità dei succhi gastrici che svolge un ruolo molto importante per la salute in particolare nella trasformazione chimico-fisica degli alimenti,avvalendosi da un lato di movimenti coordinati di miscelazione e triturazione e, dall’altro, di secrezioni digestive ricche di enzimi, in particolare di acido cloridrico.
Tra le varie funzioni dell’acidità, una delle principali è quella di barriera nei confronti dei molteplici microorganismi ingeriti.
In caso di riduzione prolungata della sintesi dell’acido cloridrico si assiste ad un aumento di proliferazione batterica sia nello stomaco sia nel tenue, aumento della carica batterica, rischi di infezioni gastrointestinali da Salmonella e Campylobacter, ridotto assorbimento di vitamina B12, aumentato rischi di fratture e malassorbimento di magnesio e come confermato da recenti studi anche la possibilità di innescare un quadro di insufficienza renale.
I disturbi connessi al tratto gastroesofageo sono molto comuni e si stima che interessino circa un terzo della popolazione europea . Le condizioni che richiedono più spesso un intervento terapeutico sono reflusso , gastrite e difficoltà digestive.
L’acido cloridrico è necessario alla complessa funzione del tratto gastroesofageo e la sua eccessiva inibizione porta inevitabilmente ad un cattivo risultato nel processo digestivo così come se si saltasse un importante e fontamentale passaggio nel processo di un oggetto in una catena di montaggio.
L’approccio della medicina complementare, mediante agopuntura, omotossicologia e medicina funzionale, volge invece che ad una inibizione, alla ricerca di tutti i possibili agenti esterni ed interni disturbanti, valutando l’aspetto alimentare, funzionale ed emozionale del paziente  e agendo con un approccio di terapia che guarda il più possibile alla ricerca di ricreare un normale assetto dell’organismo.

MEDICINA INTEGRATA E NEUROTROFINE

 

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L’utilizzo nella medicina integrata di sostanze e molecole che vengono somministrate ad un dosaggio “fisiologico” permette di poter avere a disposizione un approccio di terapia molto efficace la dove l’uso di queste sostanze a livello ponderale ( farmacologico) porta ancora ad avere delle grosse controindicazioni dato il maggior numero di effetti avversi rispetto al beneficio .  Ormoni, citochine, neuropeptidi e fattori di crescita possono essere utilizzati per regolare e riequilibrare l’organismo. Tra questi il Nerve Growth Factor (NGF) è uno di quelli che presenta un vasto campo di applicazione.

NGF E STRESS CRONICO

Gli ultimi studi evidenziano che le neurotrofine, ed in particolare il Nerve Growth Factor (NGF), possono essere un sistema di risposta allo stress che va ad aggiungersi a quelli storici come il Neuroendocrino (asse HPA, ipotalamo – ipofisi – surrene) e il Sistema Nervoso Autonomo. In pratica anche l’NGF rappresenta una risposta adattiva allo stimolo stressogeno che risulta maggiore in coloro che hanno maggiore capacità di adattamento e recupero. Tutto ciò non accade solamente durante l’età adulta, ma anche durante i periodi critici dell’ontogenesi, quando lo sviluppo cerebrale è particolarmente sensibile agli stimoli esterni. Infatti nell’infanzia gli stress psicofisici incidono sui livelli di NGF ed inducono la disregolazione dell’asse HPA condizionando lo sviluppo cerebrale e contribuendo alle differenze interindividuali nella vulnerabilità allo stress e nei disturbi psichiatrici.

NGF E DEPRESSIONE

Una recentissima metanalisi della letteratura scientifica ha evidenziato che nei pazienti depressi i livelli di NGF sono significativamente più bassi che nei soggetti sani. Esiste inoltre una correlazione inversa dei livelli di NGF con l’aumentare dell’età e la severità della malattia. E’ stato infine constatato che la quota di NGF non subisce variazioni significative da prima a dopo i classici trattamenti terapeutici. Altri studi hanno anzi dimostrato che i pazienti con depressione maggiore  trattati con duloxetina, vedevano i loro bassi livelli di NGF diminuire ulteriormente durante e dopo il trattamento.

NGF E SINDROME METABOLICA

Il campo delle neurotrofine, in particolar modo dell’NGF, ha visto nel tempo un grande numero di svolte e di novità. E’ stato evidenziato che l’NGF, ed anche il BDNF ( Brain Derived Neurotrophic Factor ) sono mediatori di molteplici fenomeni biologici. Oltre alla loro azione stimolatoria sulla differenziazione e sopravvivenza neuronale, le neurotrofine migliorano il metabolismo del glucosio e dei lipidi oltre al controllo del bilancio energetico e del comportamento alimentare. E’ stato da tempo riportato che i livelli circolanti e tissutali di NGF e BDNF sono diminuiti nelle malattie cardiometaboliche quali la sindrome metabolica, le sindromi coronariche acute, l’obesità, il diabete tipo 2, l’aterosclerosi e il diabete tipo 3

NGF E SCLEROSI MULTIPLA

La sclerosi multipla è una malattia cronica risultante dalla distruzione mirata della mielina nel sistema nervoso centrale. Sebbene i trattamenti attuali riducano la gravità della malattia e ne rallentino la progressione, essi non riparano direttamente i danni della mielina.  Le strategie terapeutiche più recenti sono concentrate sulle neurotrofine per la riparazione della mielina. L’NGF promuove la rigenerazione assonale, la sopravvivenza, la protezione e la differenzazione degli oligodendrociti e facilita la proliferazione e la migrazione dei precursori di questi ultimi nei siti di danneggiamento della mielina.

NGF E PATOLOGIE OCULARI-INFERTILITA’ MASCHILE E MORBO DI ALZHEIMER

Recenti trials clinici sulla somministrazione dell’NGF per via sistemica e topica dimostrano che l’NGF è efficace nel trattamento di parecchie patologie oculari come il glaucoma e la retinite pigmentosa.

E’ stato riportato che l’NGF è coinvolto anche nella fisiologia della riproduzione maschile e come ultima ipotesi anche come fattore, se carente, di sviluppo del morbo di Alzheimer.

Mauro Piccini

IL MICROBIOTA INTESTINALE UMANO

intestino
L’intestino potrebbe essere considerato il più importante organo dimenticato del nostro corpo non solo perché è il più esteso e perché controlla  gran parte delle funzioni dell’organismo grazie all’incredibile quantità e varietà di ormoni che secerne, non solo per le importanti attività di trasformazione e metabolizzazione dei vari  alimenti ma anche e soprattutto per l’incredibile contenuto di cellule microbiche, che formano il cosiddetto microbiota, che gli consentono di pilotare gran parte delle attività vitali del corpo umano.

I microrganismi saprofitici sono diffusi in varie sedi dell’organismo umano come la cute, il naso, i bronchi, la bocca ma ne è soprattutto l’intestino che ne costituisce il deposito più ricco e vario. Poiché le cellule microbiche che albergano nel corpo umano sono dieci volte più numerose delle cellule che costituiscono il nostro corpo, ne deriva che l’intestino umano ospita un’enorme quantità di microrganismi, approssimativamente 100 trilioni di batteri, superiori in numero alle cellule umane di cica 10 volte. La maggior parte del microbiota gastro-intestinale risiede nel colon ed è proprio in questo tratto che vengono svolte le azioni più importanti per il nostro benessere e per la protezione della nostra salute. Ovviamente un così alto numero di organismi determina un non meno elevato numero di geni che fanno parte di una complessa struttura interagente con il patrimonio genico nucleare chiamato microbioma. Anche qui, tuttavia, abbiamo una prevalenza del dato quantitativo relativa ai microbi. Infatti, i geni del microbioma intestinale superano in numero di geni del corpo umano di circa 150 volte.

Ogni uomo, dunque, ha un suo specifico patrimonio genetico che eredita dai genitori e in cui sono scritte tutte le informazioni che influenzeranno, fra le altre cose, anche la comparsa o la predisposizione a sviluppare determinate malattie; tuttavia le cose sembrano essere parecchio più complesse. In effetti fino a poco tempo fa si credeva che la sola predisposizione genetica, accoppiata all’esposizione  a un fattore ambientale scatenante, fosse necessaria e sufficiente a sviluppare malattie immuno-mediate, incluse quelle allergiche, autoimmunitarie e tumorali ma non è così.

Secondo alcuni ricercatori, i microrganismi che abitano con l’uomo hanno una tale influenza sulla sua fisiologia che dovrebbero essere considerati parte dello stesso genoma umano. I conti della genetica insomma, non tornano e non sono sufficienti per spiegare alcuni fenomeni come ad esempio la crescente diffusione di malattie autoimmunitarie e allergiche nei Paesi industrializzati. Con il lancio del progetto del microbioma umano abbiamo appreso che viviamo tutta la vita in simbiosi con un mondo parallelo che nella sua totalità esprime un numero di geni 100 volte superiore a quanti ne esprime l’uomo, che i microrganismi a noi noti fino a poco tempo fa rappresentano solo una piccola parte dell’intera flora simbiotica presente nel nostro corpo, che siamo fatti più di cellule di microrganismi che di cellule nostre. Abbiamo anche appreso che c’è una continua interazione tra noi e questa comunità microbiologica che può fortemente influenzare il nostro stato di salute. Alcuni ricercatori hanno così formulato l’ipotesi che il nostro organismo sia il prodotto di due genomi: quello umano, che ereditiamo dai nostri genitori e il microbioma, molto più dinamico, che cambia da individuo a individuo e, nello stesso individuo, nel tempo. Oggi sappiamo da diversi studi come i batteri che abitano il corpo umano possano influenzare direttamente lo sviluppo del sistema immunitario, la risposta alle lesioni delle cellule epiteliali, il bilancio energetico dell’organismo e l’insorgenza di malattie autoimmuni. Possiamo dunque rappresentarci l’uomo come un aggregato inscindibile fra le cellule epiteliali dell’intestino e le cellule microbiche ivi residenti. La sopravvivenza dell’uomo e del microbiota sono interdipendenti e la loro trasparente collaborazione crea armonia fisiologica e funzionale. Come esito di tutto ciò il microbiota intestinale partecipa al metabolismo dei carboidrati, delle proteine e dei lipidi, regola la secrezione degli ormoni, del pH e degli ioni H, nonché la produzione dei composti anti-batterici.

L’insediamento del microbioma avviene già nel periodo fetale ma è soprattutto avviene alla nascita, con la nutrizione al seno o artificiale, l’esposizione ai microbi presenti nell’ambiente. Tuttavia, va tenuto presente che sebbene il microbioma si stabilisca precocemente, può modificarsi durante la vita, cambiando con l’età, la dieta, la localizzazione geografica, l’apporto di integratori alimentari e farmaci e altre influenze ambientali. Esistono oramai numerosi studi che documentano come le persone che soffrono di alcune malattie ( malattia infiammatoria intestinale, malattia dell’intestino irritabile, allergia ) abbiano variazioni nella composizione del microbioma rispetto a quello delle persone sane. Sembra oramai acclarato che i microrganismi presenti nell’intestino giocano un ruolo cruciale per la digestione sana, ma anche per lo sviluppo di un sistema immunitario forte e bilanciato . IL microbioma ha strette relazioni anche con la nostra mente. Di questo già si sapeva attraverso la teoria del secondo cervello di Michael Gershon che riuniva una serie di esaltanti scoperte scientifiche sull’azione di neuromodulatori intestinali a livello cerebrale. Ciò che era meno noto è che questa interazione si appoggiasse anche sul microbiota intestinale per cui variazioni e cambiamenti della flora batterica intestinale per mezzo della dieta, per esempio, possono intervenire modificando le funzioni del cervello. Non a caso esistono oramai diversi studi che hanno trovato correlazioni tra alcuni tipi di probiotici e l’umore e l’ansia. Alcuni autori, spingendosi oltre, ipotizzano addirittura che i batteri possono incidere sugli stati d’animo e i comportamenti umani al fine di proteggere i delicati equilibri del proprio ecosistema. Considerato un prezioso organo “nascosto” il microbiota intestinale del corpo umano è dunque un superorganismo dalle qualità preziose per la salute e per la vita da cui dipende la salute dell’intero organismo.

Ma le incredibili scoperte, sinora solo iniziali, che interessano il  microbioma e il microbiota hanno un aspetto interessante che travalica le usuali scoperte scientifiche poiché appartengono a quei capitoli della scienza e della medicina che riscrivono le conoscenze e gli schemi che sino ad oggi hanno strutturato la teoria e la pratica della cura. Se sino ad oggi abbiamo sempre considerato il microbo come il nemico della nostra avventura umana sulla terra, oggi siamo costretti ad ammettere che è, probabilmente, il nostro più forte e fedele alleato. Alleato, certo non suddito. Può essere alleato ma ha le sue regole, che bisogna conoscere e rispettare se si vuole che la convivenza si mantenga fruttuosa. Possiamo dunque continuare a  pensare a una terapia che lo coinvolge come basata su un’attività che lo distrugge e di cui gli antibiotici costituiscono l’esempio per antonomasia? Possiamo continuare a pensare  a un essere umano definito da una res cogitans così come dai propri pensieri e dai propri sentimenti quando probabilmente l’influenza dei propri alimenti sugli uni e sugli altri si sta sempre più  rivelando di un’importanza estrema? E pensiamo davvero di entrare nella delicata biochimica del cervello e in quella non meno delicata dell’intestino attraverso psicofarmaci quali gli inibitori del re-uptake della serotonina, gli antibiotici, i fans , i cortisonici ecc.? Se lo studio approfondito del microbiota ci rende un essere umano la cui struttura è profondamente collegata dalla genetica, al pensiero e alle emozioni da un lato e al comportamento di una struttura complessa e sofisiticata come quella della rete microbica che ci abita, possiamo continuare a programmare setting di terapie come se tutto ciò non esistesse concentrandoci solo sulla nostra genetica, la struttura cellulare o poco altro? La visione ecologica e complessa dell’uomo  che le scoperte del microbioma ci propongono ci suggerisce come una realtà così complessa può essere affrontata con un processo di cura che abbia dalla sua un progetto di globalità interattiva quale nessuna delle cure moderne ha.

Estratto da OMEOPATIA OGGI- febbraio 2016

 

IL RUOLO DEGLI ANTICORPI IN NUTRIZIONE UMANA

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L’immunologia moderna sta acquisendo importanti informazioni sulla nutrizione individuale grazie a una chiave d’interpretazione evoluzionistica della produzione di anticorpi di classe G (IgG) nei confronti degli alimenti. Il vero ruolo delle IgG verso gli alimenti è di indicare una ripetuta assunzione alimentare o una quantità eccessiva di un certo alimento introdotto con la dieta. Per anni si è cercato di identificare gli anticorpi contro il cibo per capire la risposta infiammatoria alimentare, mentre oggi non si può più parlare di anticorpi “contro” il cibo, ma semplicemente del modo in cui l’organismo prende contatto con un alimento e in un certo senso “fa conoscenza” con lui.
La produzione di IgG è l’espressione del modo con cui il corpo umano, nei milioni di anni di evoluzione, ha imparato a conoscere gli alimenti che entrano nell’organismo a portare energia, per selezionare quelli più adatti.
Oggi è finalmente possibile comprendere sul piano evoluzionistico il significato delle reazioni alimentari di tipo infiammatorio, grazie alla possibilità di misurare e seguire i livelli di citochine come Baff e Paf (sostanze infiammatorie e spesso di segnale). Capire il profilo alimentare individuale consente di guidare il cambiamento dei comportamenti dietetici per controllare l’infiammazione. Lied (1) ha evidenziato la comparsa di Baff in modo significativo in tutte le persone che manifestavano sintomi correlati ad un alimento; Baff regola attraverso un controllo di segnale sui recettori delle cellule la risposta allergica, la produzione di IgG, la risposta dolorosa, la cicatrizzazione, l’attivazione metabolica, l’azione muscolare e l’attivazione di malattie come le malattie autoimmuni e la celiachia. Dal 2012 Ligaarden (2) ha evidenziato con chiarezza che il valore di IgG cresce nell’organismo in modo corrispondente alla dieta che una persona sta seguendo con sistematicità. In pratica, se in chi mangia spesso formaggi, pane e vino, quegli alimenti fermentati iniziano a essere “individualmente in eccesso”, ecco che la produzione di IgG cresce e i segnali di allarme nei confronti di quei cibi diventano sempre più evidenti. Questo consente oggi di dosare le IgG per i Grandi Gruppi Alimentari e di identificare attraverso test specifici (3) il profilo alimentare individuale che permette di interpretare finalmente il vecchio e angusto tema delle scientificamente obsolete “intolleranze alimentari” alla luce delle teorie evoluzionistiche, per potere aiutare ogni organismo a guarire e a ritrovare il giusto rapporto con il cibo.

Approfondimenti:
1) Lied GA et al, Aliment Pharmacol Ther. 2010 Jul;32(1):66-73.
2) Ligaarden SC et al, BMC Gastroenterol. 2012 Nov 21;12:166.
3) Speciani AF e Piuri G, J Am Coll Nutr. 2015;34 Suppl 1:34-8.

da Nutrizione 33

L’INTESTINO CRASSO: LA LIBERAZIONE

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Dal passato dovremmo riprendere i fuochi, e non le sue ceneri”. (Jean Leon Jaurès)

In psicosomatica si dice che le tensioni che tratteniamo si riverberano e manifestano con sofferenze per il nostro intestino crasso. Tutto ciò che è strettamente legato all’azione del trattenere si manifesta con i segni evidenti di costipazioni, dolori e fitte, meteorismo, flatulenza che vengono letti come segnali di una profonda paura di fallire, un eccesso di riservatezza, una timidezza profonda o una tristezza insita nell’anima.

Sempre secondo la psicosomatica le manifestazioni dell’intestino crasso sono legate alla mancata chiusura e cicatrizzazione delle ferite provocate dalle esperienze negative o dalle insicurezze materiali e affettive.

Molti sono convinti che queste ultime possano essere trattate con la stessa logica. Al contrario esistono due ambiti distintivi e complementari ben contrapposti tra loro: quello spirituale e quello materiale.

Ogni volta che dobbiamo fare una scelta dobbiamo orientarci verso uno o l’altro. Importante è ricordare che sulla bilancia del nostro benessere se lavoriamo troppo sulla parte materiale, l’altra viene meno portando notevole disequilibrio.

L’essere umano nasce spirituale e compie tutto il suo percorso vitale alla ricerca di questo aspetto come complemento per la propria felicità. Tutte le filosofie orientali sono concordi nell’affermare che maggiore è la ricerca spirituale e più grandi sono i benefici materiali che si ricevono. In effetti, più si sale verso una spiritualità profonda e meno sono le necessità materiali che vengono, non dico abbandonate, ma considerate più per la loro utilità più che per la dipendenza che creano.

L’intestino crasso ha simbolicamente proprio questa funzione: ricordarci di espellere tutto ciò che è inutile, superfluo perché, in caso opposto, può solo nuocerci profondamente e impedirci di essere e pensare liberamente.

da Olos e Logos Paolo G.Bianchi

DOPO I 70 ANNI, LA PRESSIONE UN PO’ ALTA AIUTA A VIVERE MEGLIO E PIU’ A LUNGO

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Uno dei disagi più presenti nelle persone avanti negli anni è la mancanza di forza e di energia.

Troppo spesso visito persone di una certa età che prendono farmaci per la pressione alta e che alla misurazione evidenziano valori di 120/70 o anche meno, ottimi valori per un trentenne, ma meno adatti ad un settantacinquenne.

Quando da distesi li faccio sedere, spesso la pressione si abbassa ulteriormente, raggiungendo valori da “bambino”.

Avviene spesso così: tra i 40 e i 60 anni si è iniziato a prendere la pillola (più spesso “le pillole”) per la pressione e queste sono diventate un’abitudine. Quindi in molti casi la pressione va a valori di 130/70 che sono perfetti tra i 40 e i 60 anni, ma negli anni successivi, quando le arterie si induriscono lievemente, gli anziani potrebbero avere bisogno di una pressione arteriosa un po’ più elevata per fare funzionare al meglio il cervello e soprattutto per stare in piedi senza vacillare e cadere.

Le persone con la pressione arteriosa più bassa, talvolta troppo bassa, sono spesso al centro di cadute e di traumi. La rottura del femore o il trauma cranico sono all’ordine del giorno.

Fa bene ricordare che la pressione arteriosa ha delle oscillazioni diurne e notturne importanti. Così, chi di giorno si misura 130/70 rischia di notte di avere 100/60 e di cadere per terra senza accorgersene quando magari si alza dal letto solo per fare pipì…

Da qualche anno, sono finalmente comparsi  alcuni lavori scientifici che evidenziano questo problema, riconoscendo che i valori richiesti per le persone di mezza età possono essere troppo bassi per chi invece ha più di 70 anni, obbligando quindi il medico ad una riflessione che vada oltre la lettura delle “Linee guida” e lo porti a considerare invece la risposta individuale.

Due recentissime ricerche, effettuate da ricercatori italiani, danesi e olandesi, hanno valutato il rischio di mortalità nelle persone di oltre 75 anni, studiando, nella prima ricerca, oltre 1500 persone di una coorte di cittadini milanesi, seguiti per 10 anni (Ogliari G et al, Age Ageing. 2015 Nov;44(6):932-7. doi: 10.1093/ageing/afv141).

In questa ricerca si è documentato che il rapporto tra pressione e mortalità in generale è a forma di “U”, ovvero che chi ha la pressione altissima e chi la ha molto bassa hanno un rischio di mortalità elevato, mentre chi la ha “medio-alta” (o almeno così si crede) ha la migliore possibilità di sopravvivenza.

I dati parlano di un valore di 165/85 come valore ottimale. Si tratta di un “numero” che spesso fa sobbalzare medici e pazienti, ritenendo che sia una pressione troppo elevata, mentre i dati statistici sono molto chiari.

Una pressione medio alta (la stessa che era considerata normale 50 anni fa) è positivamente correlata al prolungamento del benessere e della vita stessa. In altri termini “fa bene…”.

La seconda ricerca, pubblicata sul Journal of American Geriatric Society, definisce invece che quello stesso livello di pressione (165/85) è quello che garantisce per il miglior stato cognitivo negli anziani e che aiuta le persone che abbiano già avuto un declino cognitivo a migliorare le proprie performance intellettive (Ogliari G et al, J Am Geriatr Soc. 2015 Sep;63(9):1741-8. doi: 10.1111/jgs.13616. Epub 2015 Aug 17).

In pratica significa che con quella pressione anche il cervello riceve il giusto nutrimento e funziona meglio.

Sopra i 70 anni quindi, i valori di pressione ( ma lo stesso lo diciamo da anni per il colesterolo) vanno rivisti in modo da facilitare il passaggio dell’ossigeno nel cervello per mantenere elevate le capacità di movimento, l’umore e le capacità intellettive.

Torniamo quindi alla necessità di usare il buon senso nelle prescrizioni e nel considerare ogni persona una persona a sé stante, per potere sempre suggerire il meglio per il benessere e per la qualità e la durata della vita.

In pratica, significa che vanno messi in atto tutti gli accorgimenti che evitino un eccessivo abbattimento della pressione, preferendo ad esempio scelte dietetiche corrette e l’utilizzo di probiotici adatti piuttosto che di farmaci, utilissimi certo, quando si sono esaurite le capacità autonome di riequilibrio.

Inoltre significa che i valori di pressione cui deve aderire una persona di 70 anni e oltre non sono quelli previsti per un trentenne. Significa che ogni medico deve essere cauto nel mantenere valori bassi di pressione o nello spingere un anziano a raggiungerli.

Attilio Speciani

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