L’ATTACCO DI PANICO. DAL SINTOMO ALLA COMPRENSIONE

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Parlare di “attacco di panico” vuol dire affrontare lo spettro della dissoluzione, della frantumazione della propria identità, delle certezze e delle difese che fino a quel momento hanno sorretto l’individuo e gli hanno permesso di mantenersi in un delicato equilibrio tra angosce e sicurezze. L’attacco di panico è una esperienza acuta e improvvisa di forte angoscia che, nonostante la natura transitoria, produce sensazioni intense, incombenti e dolorose. Il panico evidenzia lo stretto rapporto tra mente e corpo. È quest’ultimo a reagire, ad urlare con forza le proprie tragiche paure. Lo fa attraverso una sintomatologia fisica caratterizzata da senso di soffocamento, tachicardia, intensa sudorazione spesso associata a sensazioni di freddo, vertigini, tremore, dolore o fastidio al petto, nausea.

Sembra che oggi, nella nostra società ‘liquida’, il corpo abbia subito un’altra – l’ennesima – rimozione, sia stato nuovamente ‘inscatolato’ e reso ostaggio di logiche di consumo dove si afferma sempre più l’equivalenza corpo = merce.  Non è un caso allora se oggi assistiamo a problematiche in cui il corpo ed il corporeo si fanno contenitore ed ultimo ricettacolo di quelle istanze esistentive negate, respinte e forcluse a livello psichico. (Fernando Maddalena)

La nostra esistenza si delinea all’interno di una matrice culturale di riferimento, con le sue pressioni e le sue aspettative. L’essere umano è da subito immerso in un sistema di relazioni, attraverso le quali struttura il proprio senso di sé e la sua sicurezza di base. Le figure di riferimento genitoriali, in questo contesto, sono le primissime forme di interazione e confronto con le quali l’individuo si relaziona. Dall’incontro e dallo scontro con le aspettative dell’esterno vengono ridefinite, e spesso stravolte, le caratteristiche intrinseche dell’individuo, in una continua negoziazione tra bisogni di sicurezza ed accudimento e necessità di autorealizzazione, libertà, autenticità ed indipendenza.

L’individuo sofferente, è infine costretto da più fronti a ricorrere alla fantasia per sentirsi intero, per sperimentare un sé solo in apparenza coeso, abile a fronteggiare le difficoltà ambientali, costruisce una sua immagine idealizzata. Questa costruzione fittizia è qualcosa di molto lontano dalla dimensione reale, ma comunque utile all’individuo per sopravvivere all’angoscia di base che minaccia il senso profondo dell’esistere. La caratteristica peculiare della immagine idealizzata è quella della staticità, per cui è quasi impossibile per il soggetto tendere al cambiamento e men che meno alla messa in discussione delle proprie aree grigie. Essa è una immagine fissa da idolatrare e non un ideale da perseguire con innumerevoli sforzi.

“Gli ideali genuini conducono all’umiltà, l’immagine idealizzata all’arroganza” scrive Karen Horney.

La funzione fondamentale dell’immagine idealizzata è dunque quella di sostituire alla fiducia di sé una fiducia fittizia che porta il soggetto alla dipendenza dalle richieste esterne, piuttosto che dalla sana attitudine all’autorealizzazione spontanea e creativa, che si esplicita nella tendenza a cercare di governare la propria vita. In questo contesto il mondo è visto come minaccioso e ostile e l’immagine ideale trae da questa visione maggiore linfa vitale per attecchire e svilupparsi. Quando il mondo esterno viene percepito come eccessivamente ostile, foriero di esperienze di abbandono e rifiuto, è necessario adattarvisi in maniera coatta, rigida ed inautentica. È questo il preludio per la formazione di strutture nevrotiche cristallizzate, schemi di relazione disfunzionali ed impoveriti, immagini di sé in relazione all’altro poco negoziabili e ridefinibili. Winnicott, Karen Horney ed altri autori parlano di “Falso Sé” ad indicare una costruzione rigida che imbriglia la personalità all’interno di schemi predefiniti, limita la sperimentazione e la scoperta, uccide i desideri reali e le aspirazioni, esaspera una forma di adattamento all’ambiente per nulla creativo, nel quale l’universo emotivo è impoverito, ingabbiato e lontano dalla sua reale possibilità di espressione vitale.

La più importante delle radici degli attacchi di panico è costituita dall’incapacità di percepire e riconoscere le emozioni, come conseguenza di una specie di “analfabetismo emozionale”, che si è strutturato progressivamente nel corso della vita, di pari passo con la strutturazione del Sé. Il paziente, non riuscendo a riconoscere l’emozione come un accadimento mentale unitario, percepisce slegate fra loro le singole espressioni fisiche di essa. È come se percepisse slegate tra loro le tessere di un mosaico. Non possono che apparirgli del tutto prive di senso. Ma il “mosaico”, che lui non riesce a integrare, e di cui non ha consapevolezza perché neppure lo percepisce, non è esterno a lui. Lo riguarda direttamente. È dentro di lui. Sensazioni, quindi, fortissime e insensate. (Paolo Roccato)

La psicoanalisi contemporanea  vede l’attacco di panico come una espressione vitale di ciò che ancora rimane di autentico nell’individuo. Una espressione del “Vero Sé”, intrappolato e ferito, ma non ancora sconfitto. Può sembrare paradossale, ma è assolutamente importante leggere l’esperienza del terror panico come un tentativo disperato e certamente destabilizzante per urlare con forza il proprio disagio, per riconnettersi con le parti vitali presenti in dentro di sé.  La crisi di panico mette l’individuo di fronte al fallimento della struttura difensiva, evidenzia cioè una fondamentale fragilità del Sé in termini di non acquisizione di uno stabile senso di identità soggettiva…

Di Fabio Masciullo

 

IL VUOTO, E’ NEL VUOTO CHE I DISAGI E L’ANIMA TROVANO RISTORO E FORZE.

VUOTO

“Da tale vuoto assoluto… sboccia meravigliosamente l’azione.”
(Da “Lo zen e il tiro con l’arco”)

«Gli uomini hanno paura di abbandonare le loro menti, perché temono di precipitare nel vuoto senza potersi arrestare. Non sanno che il vuoto non è veramente vuoto, perché è il regno della Via autentica.»   (Huang-po)

«Ci sono due tipi di vuoto. Il vuoto che cerco io è fatto di buio, di nulla, è una dimensione dove non ci sono pensieri. Se, per esempio, mi trovo a dover prendere una decisione, chiudo gli occhi e cerco il vuoto. (…) Poi c’è il vuoto che viene da sé, spontaneamente: e questa è un’ottima cosa! Per esempio quello dei bambini che si distraggono molto, che si incantano; oppure quello dal quale, silenziosamente, senza chiedere il tuo parere, senza pensieri, si forma incessantemente la persona che sei. Una sorgente sconosciuta che sta realizzando te, sta facendo il tuo essere come va fatto, e per la quale la tua opinione conta meno di niente. (…) Ecco a cosa serve il vuoto: a ricordarti che non sei tu il protagonista, che c’è qualcosa che ti sta creando e sa cosa fare, quando piangere, quando ridere, quando fare l’amore, quando irritarsi…E’ chiaro che non ha modelli, segue un suo stile, cos’altro dovrebbe fare?
Mentre tu insisti a mettere paletti: vado bene, non vado bene, sono giusto, sono sbagliato, ieri ho fatto così, dovevo fare diversamente, e poi ho avuto un’infanzia difficile, mi maltrattavano…Ma così chiedi al tuo artefice di rispettare una serie di codici che non sono i suoi: sarebbe invece un’ottima cosa lasciar perdere tutto e affidarsi totalmente al vuoto. (…)   Come scrive Plutarco

“La mente non ha bisogno, come un vaso, di essere riempita, ma, come la legna da ardere, ha bisogno solo di una scintilla che la accenda”

(…) Quanto più vuoto realizziamo in noi, tanto più sapere innato attingiamo.
L’operazione da fare quando stiamo male è molto semplice: basta ricordarsi che c’è un luogo segreto dentro di noi, il nostro spazio vuoto. In quel silenzio invisibile che ci abita, là dove non ci conosciamo, c’è la nostra essenza e assieme la guarigione da ogni disagio. Perché siamo, principalmente, proprio ciò che non vediamo di noi stessi. In quel silenzio rarefatto e invisibile che abita ognuno di noi c’è la prevenzione, la cura, la soluzione dei nostri disagi.
(…) Nascondersi è annullarsi, prendere le distanze dal conosciuto, disidentificarsi.
Nascondersi è curarsi, rigenerarsi, lasciar fare al Sé. Non c’è seme nell’universo che non si occulti per creare la vita di una pianta, di un animale, di un uomo. Nascondersi è la ricetta di tutte le ricette. Qualsiasi cosa accada, qualsiasi problema ti affligga, tu nasconditi…e rifugiati nel vuoto. (…) Dio si occulta e, quando noi immaginiamo uno spazio vuoto, misterioso e nascosto, le forze cosmiche sono più che mai al nostro fianco. (…)
Ogni tanto faremmo bene a chiederci “Quanto «vuoto» c’è stato nella mia giornata?” (…)
I miei pazienti sono sulla strada giusta quando non cercano di risolvere quelli che chiamano “i loro problemi”.
“Non devo salvare il mio matrimonio” oppure “non devo cambiare vita” sono alcune delle frasi che permettono all’anima di compiere i suoi prodigi, di produrre i suoi effetti terapeutici. Il vuoto ha più poteri di qualsiasi ragionamento, di qualsiasi farmaco, di ogni sforzo di volontà.
“Secondo la Kabbalah, il fondamento che sostiene tutta l’esistenza è l’Ain, il Nulla metafisico. Uno dei versi biblici che giustifica questa affermazione è (Giobbe 26,7): “Tolè aretz al blimah”, “sospende la terra sul Nulla”. (Nadav Crivelli)

  (…) Il vuoto ricorda all’anima il suo navigare nel Senza Tempo. (…)
Certamente non ce la puoi fare se pensi di avere un problema irrisolvibile, se la prima cosa che fai è chiamare qualcuno per lamentarti, oppure se cominci a rimpiangere il passato, a pensare a come stavi meglio allora, o a considerare come altri hanno affrontato quel problema; non ce la puoi fare così…! Bisogna, giorno dopo giorno, procedere come esseri sconosciuti a se stessi e la vita aprirà strade nuove, offrirà nuove soluzioni: ma spesso non ce ne si accorge, perché la mente è troppo centrata sull’identità consueta, e non vede. (…)

Se esiste un principio che crea il mondo, lo crea nascondendosi. (…) Come scrive Eraclito

“L’intima natura delle cose ama nascondersi”.

Esattamente il contrario di quello che facciamo quando siamo in pena, quando corriamo da qualche amico o lo chiamiamo per raccontargli i nostri problemi e farci compatire. Così facendo l’invisibile non può aiutarci, perché ogni volta che parliamo di un problema a qualcuno, lo rinforziamo. Le parole aumentano il disagio. Il vuoto guarisce. (…)
Come il seme si nasconde nella terra per creare le piante, come l’uovo fecondato è al riparo nell’utero, quando ci rifugiamo in noi stessi entriamo nell’uovo cosmico, come dicevano gli alchimisti. E se le cose non si risolvono ancora, allora vuol dire che ci abbiamo pensato troppo, che abbiamo portato con noi, lì dentro, troppo della nostra identità. Significa che, per noi stessi, siamo diventati una zavorra da cui liberarsi in fretta.

“Secondo il pensiero Kabbalistico il Nulla divino (da non confondersi col nulla della filosofia esistenzialista) è superiore all’Essere Rivelato. Ciò che “non conosciamo” di Dio è sempre maggiore, più importante e attraente di ciò che “conosciamo”.” (Nadav Crivelli)

E’ importante, durante la giornata, anche quando siamo in mezzo agli altri, percepire il nostro lato “vuoto”, che significa essere presenti senza avere niente da dire né a sé né agli altri.»

(Raffaele Morelli – Curarsi senza medicine – Mondadori, p.55-66)

”La malattia è la dolorosa testimonianza di qualche conflitto in atto nel corpo e nell’anima. io cerco di scoprire che cosa i miei pazienti stiano nascondendo a se stessi; perciò, quando si rivolgono a me, mi limito al ruolo dell’ascoltatore. Faccio il vuoto nella mia mente, la rendo cioè ricettiva. Devo liberarmi di ogni preconcetto, evitare di dare giudizi sullo stato morale o spirituale che essi mi svelano.”

(C.G.Jung – Da un intervista del New York Times a Jung, fatta nel Settembre 1912, in cui egli parla della psicologia dell’americano.)

“Man mano che conosco i miei sogni, conosco meglio il mio mondo interno, divento amico dei miei sogni. In altre parole la profonda connessione con l’inconscio porta nuovamente ad un senso dell’anima, all’esperienza di un vuoto interiore, un luogo dove i significati sono a casa” (James Hillman)

«Va col vuoto tra le mani, poiché questo è tutto. Questo è il mio dono. Se riesci a portare il vuoto tra le tue mani, allora ogni cosa diventa possibile. Non portarti dietro i tuoi pensieri, la tua conoscenza, non portarti dietro niente di ciò che riempie il secchio, e che non è altro che acqua, perché altrimenti guarderai sempre e solo il riflesso, e nient’altro. Nella ricchezza, nei beni materiali, nella casa, nell’automobile, nel prestigio, tu non vedrai che il riflesso della luna piena nell’acqua del secchio, mentre la luna vera è li, in alto, che ti aspetta da sempre. Lascia cadere il secchio, cosi che l’acqua sfugga via, e con essa la luna. Solo questo ti permetterà di alzare lo sguardo e vedere la vera luna nel cielo; ma prima devi avere conosciuto il sapore del vuoto, devi lasciar cadere il secchio della tua mente, dei tuoi pensieri: non più acqua, né luna. Il vuoto nelle mani» (Jung)

«Talvolta il vuoto non è assenza, ma piuttosto lunga gestazione.Per i parametri dell’Io la gestazione è sempre troppo lunga. Ma per i parametri dell’anima, i tempi dell’attesa e dell’elaborazione interiore che precede l’evidenza esteriore sono sempre quelli che devono essere.»   (Clarissa Pinkola Estés)

«Vuoto qui, Vuoto là,
ma l’infinito universo
è sempre davanti ai tuoi occhi
Infinitamente grande
e infinitamente piccolo;
nessuna differenza,
poiché le definizioni sono scomparse
e non si vedono più limiti.
Così per l’Essere ed il non Essere.
non perder tempo in dubbi
e discussioni che non hanno
niente a che fare con questo.»
(Hsin Hsin Ming)

“Le tue sensazioni di mancanza possono trasformarsi in sensazioni di “disponibilità” se dentro di te crei uno spazio vuoto
per accogliere ciò che desideri.”   (R. Schache)

‎”E la sua invenzione specifica è stata quella di introdurre discretamente, infantilmente, un po’ di Vuoto nella musica, e perciò nella nostra vita. Ora, quel Vuoto ha per noi tutti una funzione salutare, come una brezza per un asfittico. Perchè una delle malattie più gravi di cui soffriamo è quella del Pieno: la malattia di chi vive in un continuo mentale occupato da un vorticare di parole smozzicate, di immagini stolidamente ricorrenti, di inutili e infondate certezze, di timori formulati in sentenze prima che emozioni”  (R. Calasso – La follia che viene dalle ninfe)

«Dobbiamo imparare a farci invadere dal vuoto»
(Raffaele Morelli – Non siamo nati per soffrire, p.16)

«IL buio, il vuoto, il nulla: sono metafore di una dimensione ancestrale in cui la vita si ri-partorisce. Se si accoglie il vuoto che gli abbandoni ci portano, gli addii sono fonti di progresso, di rinascita, di nuove occasioni di vita. Se resistiamo, se rimpiangiamo, ci tormenteremo per anni. Si, bisogna toccare il fondo per ritornare a vivere.
Scrive James Hillman: “[…] quando ci si sente disorientati e in balìa degli eventi; quando ci si sente vinti, schiacciati, al tappeto […] solo allora qualcosa si muove […], la violenza, il potere e l’oppressione non possono essere affrontati direttamente. Si può progredire solo quando hanno iniziato a cedere internamente, quando la psiche stessa ne erode le fondamenta e dà spazio alla fantasia.” [J.Hillman – Il linguaggio della vita. Conversazioni con Laura Pozzo.]»  (Raffaele Morelli – Ciascuno è perfetto, Mondadori 2004, p.93)

«Sono come il vento che entra nella mia interiorità. Non c’è che il desiderio: so che già questo è una terapia. I Mistici facevano così e anche la fisica moderna da tempo sostiene che il concetto di vuoto vada totalmente rivisitato, che non ci sia niente di più pieno di energia del cosiddetto “spazio vuoto”. “Il vuoto in sé” scrive Danah Zohar, psicologa e studiosa di fisica, “può essere concepito come un ‘Campo di campi’ o, più poeticamente, come un mare di potenzialità. Esso non contiene particelle e tuttavia tutte le particelle sorgono come eccitazioni […] al suo interno. […] Il vuoto è il substrato di tutto ciò che è.” [Danah Zohar – L’Io ritrovato, Sperlink & Kupfer, Milano 1990, p.263].
(Raffaele Morelli – Ciascuno è perfetto, Mondadori 2004, p.109)

«Quando ci addentriamo in questa solitudine il Dio comincia a vivere.
[…] Quando abbracci il tuo Sé, ti parrà che il mondo sia divenuto freddo e vuoto. In questo vuoto i trasferisce il Dio che ha da venire. Quando sei nella tua solitudine e tutto lo spazio intorno a te è diventato freddo e infinito, ti sei allontanato dagli uomini e al tempo stesso sei giunto a loro vicino come mai era capitato. […] Ora però, quando ti trovi nella solitudine, il tuo Dio ti conduce al Dio degli altri e per questo tramite ala vera vicinanza: a essere vicino al Sé nell’Altro.»   (C.G.Jung – Libro Rosso, p.246)

«Sentii che mi stavo immergendo in quell’acqua fresca e seppi che il viaggio attraverso il dolore finiva in un vuoto assoluto. Sciogliendomi ebbi la rivelazione che quel vuoto è pieno di tutto ciò che contiene l’universo. È nulla e tutto nello stesso tempo. Luce sacramentale e oscurità insondabile. Sono il vuoto, sono tutto ciò che esiste, sono in ogni foglia del bosco, in ogni goccia di rugiada, in ogni particella di cenere che l’acqua trascina via, sono Paula e sono anche me stessa, sono nulla e tutto il resto in questa vita e in altre vite, immortale»
(Isabel Allende, Paula, traduzione di Gianni Guadalupi, Feltrinelli

 DA Blog Jung Italia  https://carljungitalia.wordpress.com

 

MANIPOLAZIONE

 

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La manipolazione psicologica è un tipo di influenza sociale, finalizzata a cambiare la percezione o il comportamento degli altri, usando schemi e metodi subdoli ed ingannevoli, che possono anche sfociare nell’abuso sia psicologico, che fisico. Il fine ultimo perseguito dal manipolatore è la soddisfazione dei propri interessi, di norma a spese degli altri. 

La manipolazione si manifesta attraverso una comunicazione ambigua, incoerente, passivo-aggressiva, in cui il manipolatore può usare uno o più dei seguenti meccanismi nei confronti della sua “vittima”:

  • Farla sentire in colpa: consiste nel rigirare le parole dell’altro per farlo sentire in torto;
  • Aggressività passiva: utilizza modalità subdole per annullare ciò che l’altro fa o pensa, senza affrontare la questione direttamente (es: boicottare un’iniziativa che avevano detto di sostenere);
  • Negazione di fatti e/o parole avvenute realmente: il manipolatore nega cose che la vittima ricorda bene, al fine di difendersi, fino a far dubitare l’altro di se stesso (effetto gaslight);
  • Accentramento dell’attenzione su se stessi: l’attenzione deve essere sempre puntata su di loro, non ascoltano l’altro e, se egli reclama un ruolo, lo accusano di egoismo;
  • Attribuzione delle responsabilità all’esterno (locus of control esterno): sono sempre gli altri a sbagliare;
  • Critiche continue all’altro, per indebolirlo e ferirlo, che consistono in offese, insulti ed esagerazioni, usate nel bel mezzo di una lite o di una discussione, per cercare di uscirne vincenti, e che, a volte, vengono mosse quando l’altro non può rispondere (in pubblico ad esempio, o al cinema ecc.)

Inoltre, secondo alcuni studiosi, il manipolatore farebbe leva su alcuni punti deboli nella personalità dell’altro, di modo da poterne condizionare il comportamento:

  • Ingenuità: la persona tende a negare o a non accettare di poter essere vittime di una manipolazione;
  • Fiducia ed autostima scarse;
  • Dipendenza, soprattutto affettiva, dagli altri (quindi, l’incapacità di dire no);
  • Bisogno di approvazione da parte degli altri;
  • Impulsività;
  • Solitudine;
  • Eccessiva influenzabilità o impressionabilità;
  • Masochismo;
  • Età avanzata.

Questi autori, inoltre, hanno constatato che l’efficacia dei manipolatori patologici non è determinata tanto dalle tecniche, quanto piuttosto dalla particolare attenzione che essi dedicano ad osservare e meditare sulle vulnerabilità psicologiche delle altre persone, in quanto potenziali vittime: infatti, il fulcro del lor potere risiede nella perfetta complementarietà tra la vulnerabilità psicologica della vittima e la relativa tecnica da essi scelta.

Infine, da quanto descritto dagli esperti nel campo, si possono individuare diverse tipologie di manipolatore, per cui c’è:

  1. il cybervampiro: usa la chat o i social network per contattare le persone, le inonda di complimenti e le lusinga, instaurando un rapporto di dipendenza, attraverso ripetuti contatti telefonici o lunghe conversazioni via chat, ma evitando scrupolosamente ogni incontro dal vivo.
  2. il mentore: appare sicuro di se’, informato su tutto, giudica e valuta ogni argomento e non esita a farsi forte dei propri titoli di studio e della cultura che lo caratterizza. E’ incapace di instaurare un dialogo perché’ detesta essere contraddetto, assumendo un atteggiamento arrogante e cinico.
  3. il bugiardo: tende ad instaurare una relazione di coppia esclusiva per isolare il partner da amici e parenti, preferisce domandare e raccontare poco di se’. Nei rapporti scompare per lunghi periodi, per poi ricomparire improvvisamente.
  4. il salvatore: è una figura di riferimento perché’ ricorda alla vittima una persona familiare, è empatico ed autorevole, alterna momenti in cui è presente ed affidabile ad altri in cui è indifferente e violento a livello psicologico.
  5. il parassita: appare debole e bisognoso di aiuto, cerca partner benestanti. Ha come obiettivo quello di creare una dipendenza sessuale al fine di tenere la sua vittima in pugno.
  6. l’altruista: è apparentemente disponibile ad aiutare la propria vittima, racconta con facilità la propria vita ed organizza con frequenza incontri a cui non tollera un rifiuto.
  7. la finta vittima: vede sempre tutto nero, il pessimismo è il suo tratto distintivo, si sente incompreso e tende ad instaurare relazioni esclusive con la vittima, rispetto alla quale non mostra alcun interesse autentico se non per catalizzare la sua attenzione verso di se’.
  8. il buon padre: assume toni paternalistici, dà l’impressione che il benessere del partner gli stia veramente a cuore. Parla spesso dei suoi problemi con gli amici, ma ignora i loro consigli e non ha alcun interesse a definire piani di vita precisi con il proprio partner.
  9. il dipendente: appare sensibile e bisognoso di rassicurazioni, mostra un continuo conflitto con la famiglia di origine, è malinconico e solitario, crea situazioni in cui tutti si preoccupano per lui/lei. Il suo umore è instabile, tanto che spesso scompare nei rapporti ed adotta comportamenti compulsivi ed inspiegabili.
  10. il misterioso: parla molto di se’ ed è poco interessato alla vita altrui, estremamente attento al suo apparire, pretende che chi lo circonda sia sempre disponibile, mentre lui/lei non ricambia tale disponibilità. È incapace di instaurare rapporti di fiducia, mostra manie di persecuzione e tratti ossessivi.

Molte persone non si accorgono di essere manipolate, anche se possono avvertire un’ansia ed un disagio crescenti quando sono con una certa persona. In genere, all’inizio tendono a credere alle spiegazioni e giustificano il comportamento del manipolatore, a causa di un bisogno intrinseco di approvazione da parte sua. Questo processo, però, va a progredire lentamente, fino alla possibilità che, pur di non dover rinunciare al rapporto e di non deludere il manipolatore, l’altro finisce col negare il proprio punto di vista e col sottomettere il proprio senso della realtà a quello del primo.

In ogni caso, comunque, ci sono dei segnali, per la vittima di manipolazione, che possono indicarle che probabilmente c’è questo processo in atto:

  • Incubi o sogni inquietanti ricorrenti;
  • Scarsa fiducia nel proprio senso della realtà;
  • Frequente sensazione di sconcerto o confusione;
  • Incapacità a ricordare i dettagli delle discussioni con il manipolatore;
  • Sintomi ansiosi: disturbi gastrici, tachicardia, senso di costrizione al petto, attacchi di panico;
  • Frustrazione;
  • Timore o agitazione in presenza del manipolatore;
  • Sforzo per convincere gli altri e, soprattutto, se stessi, che il rapporto con il manipolatore va bene;
  • Sensazione di avere compromesse la propria integrità e dignità;
  • Impossibilità di provare gioia e soddisfazione nella propria vita;
  • Tristezza, fino alla depressione;
  • Rabbia.

Bibliografia:

  • Maldonato M., Dizionario di Scienze Psicologiche, Edizioni Simone.
  • Mammoliti C., Il manipolatore affettivo e le sue maschere, Ed. Sonda.
(A cura della dott.ssa Alice Fusella)

LE EMOZIONI IN MEDICINA CINESE – IL PENSIERO

 Il movimento Terra è associato al sistema funzionale di Milza e al pensiero.

Il movimento Terra

La Terra all’interno dei cinque movimenti occupa un  ruolo particolare. Se parliamo di cinque movimenti il più delle volte avremo in mente un loro ordine circolare, secondo il quale ognuno dei cinque movimenti nasce da quello che lo precede e genera il movimento successivo. Secondo questo modello la Terra segue il Fuoco ed è seguita dal Metallo. Ma la filosofia cinese conosce anche un altro modello dei cinque movimenti, secondo il quale la Terra si trova al centro ed i restanti quattro movimenti in un ordine quadrato occupano ognuno un punto cardinale: l’Acqua il nord, il Legno l’est, il Fuoco il sud e il Metallo l’ovest. Questa idea della Terra al centro si ritrova in molti ambiti della medicina cinese, per esempio nella denominazione dei sistemi funzionali di Stomaco e Milza come il “centro” oppure nel ruolo centrale del sapore dolce nella dietetica.

Il fatto che questi due modelli differenti dei cinque movimenti (chiamiamoli “5″ e “4+1″) possano in contesti diversi coesistere ed alternarsi in modo del tutto paritario, potrebbe forse irritare chi si avvicina alla medicina cinese. In realtà la filosofia cinese non presume, che questi modelli filosofici possiedano una qualche verità assoluta. Essi sono veri solo e fino a quando ci sono utili a spiegare un fenomeno osservato o illustrare una legge della natura. Possiamo quindi permetterci di cambiarli secondo le nostre necessità, proprio come due paia di scarpe, ed è quello che faremo anche in questo articolo.

Un contesto, in cui ambedue i modelli dei cinque movimenti possono essere utilizzati, sono le quattro stagioni. Secondo il modello dei cinque movimenti in fila uno dopo l’altro (“modello 5″) la Terra corrisponde alla tarda estate, ossia quelle settimane, in cui molti frutti diventano dolci e l’estate trattiene il respiro prima di cedere all’autunno. Secondo il secondo modello invece  (“4+1″) il movimento della Terra rappresenta il centro dell’anno, un perno immaginario, intorno al quale l’anno si sviluppa e al quale torna dopo ognuna delle quattro stagioni. La Terra in questo caso viene associata con periodi di passaggio di due settimane, che separano ognuna delle stagioni da quella che la succede.

Pensare, una delle “emozioni”

E ora arriviamo al nostro tema principale: le emozioni. L’emozione associata al movimento Terra può essere tradotta come pensare, riflettere oppure – nella forma patologica – rimuginare. Entrano nella sfera d’influenza della Terra anche la ragione e lo studio. Che strano, molti penseranno, che in medicina cinese viene classificato come “emozione” qualcosa che secondo i nostri parametri occidentali rappresenta praticamente l’esatto contrario dell’emotività. Ma in questo ambito “emozione” descrive l’espressione e il movimento del qi dei singoli sistemi funzionali. Pensare è la facoltà emotiva e l’espressione del sistema di Milza, proprio come sapersi prendere il proprio spazio è l’espressione emotiva del Fegato.

Pensare in modo eccessivo indeblisce la Milza

Il collegamento tra il pensare e la Milza si rispecchia molto concretamente nel fatto che per pensare abbiamo bisogno del qi e ne consumiamo. Oggigiorno sapiamo, che il cervello per il suo approvvigionamento energetico dipende dalla glicemia. Un livello glicemico stabile è di fondamentale importanza per un buon funzionamento del cervello. Secondo la MTC mettere a disposizione energia sotto forma di glicemia e mantenerla costante nelle situazioni normali fa parte dei compiti del sistema di Milza (in situazioni estreme è aiutata dal sistema di Rene). E noi quando pensiamo molto ci accorgiamo dell’influsso debilitante sulla Milza perchè  ci sentiamo stanchi e a volte ci viene appetito di qualcosa di dolce, segni questi di una debolezza passeggera del qi e in modo particolare del qi di Milza.

Se i periodi di pensiero eccessivo durano per troppo tempo, da questa debolezza passeggera può generare un deficit di qi di Milza duraturo. In altre parole: il pensiero eccessivo indebolisce la Milza. L’effetto nocivo comprende oltre all’indebolimento del qi Milza anche il favorimento di una sua stagnazione. In medicina cinese si dice: il pensiero eccessivo annoda il qi. In seguito il sistema funzionale di Milza non riesce più a svolgere bene le sue funzioni e tra le altre cose ne risente  anche la digestione. Questi sono disturbi osservabili nei studenti molto diligenti o generalmente nelle persone intellettuali. Tuttavia l’esito della riflessione non influenza l’effetto negativo di un pensiero eccessivo sulla salute. Anche e soprattutto l’abitudine di rimuginare senza meta e senza esito nuoce alla Milza.

Pensare e digerire

Se la Milza è a sua volta debole, in deficit di qi oppure bloccata da un accumulo di Umidità, la facoltà di pensare può essere ridotta. La persona ovviamente non è per questo meno intelligente, ma riesce a concentrarsi male e per poco tempo, percepisce il lavoro mentale come molto stancante e i suoi pensieri raramente raggiungono la chiarezza necessaria, rimanendo piuttosto sfocati e confusi. Anche l’abitudine di rimuginare può essere la conseguenza di una debolezza del sistema di Milza. Sembra come se la Milza non avesse la forza di uscire da guazzabuglio di pensieri iniziati per poterne pensare uno fino alla fine. Per poter pensare bene quindi è necessario che ci alimentiamo bene. Una colazione che tonifichi il qi per esempio molte volte sarebbe più importante per una carriera scolastica di tante ore di ripetizione.

Si riesce a comprendere bene questo tipo di debolezza immaginandosi la dinamica della Milza nell’atto di pensare. A differenza delle altre emozioni principali nella medicina cinese, le quali si manifestano con movimenti percettibili e a volte anche ben visibili, la dinamica del pensare si svolge all’interno di uno spazio più limitato. Per capire questa dinamica possiamo pensare a come i due sistemi del centro, Milza e Stomaco, collaborano nella digestione: la Milza deve estrarre da cibi e bevande le parti pure e portarle verso l’alto, dove verranno trasformate in qi e Sangue; lo Stomaco invece dirige verso il basso e verso la loro evacuazione le parti impure. Questo gioco d’insieme di forze ascendenti e discendenti rappresenta il nocciolo stesso del meccanismo del qi, ossia di quell’insieme ordinato e armonico di tutti i sistemi funzionali. Ora possiamo immaginarci, che la funzione della Milza nell’atto di pensare assomigli molto a questa sua funzione digerente. Informazioni e impressioni vengono da parte della Milza letteralmente “digerite”: sono ordinate e divise, l’utile verrà memorizzato e acquisito, l’inutile invece sarà messo da parte e dimenticato. Una Milza debole anche sul livello del pensiero non è in grado di dividere il puro dall’impuro, l’utile dall’inutile: i pensieri si rincorrono in un cerchio.

Gli anni della maturità

La fase di vita associata al movimento Terra potrebbe essere definita come gli anni della maturità. Inizio e fine di questo periodo della vita dipendono più da fattori sociali che da fattori biologici, quindi è impossibilie inquadrarli in modo universale. Comunque si tratta di anni, durante i quali nella maggior parte delle vite si fa sentire una certa stabilità: una relazione fissa, un domicilio fisso, un lavoro fisso.

Un tema centrale durante questo periodo della vita è il nutrire, in stretta risonanza con i sistemi di Milza e Stomaco. Mentre i rapporti con i partner  durante la fase del Fuoco sono caratterizzati fortemente da entusiasmo e innamoramento, durante gli anni della maturità s’incontrano più rapporti basati su fiducia, senso di responsabilità e un disegno di vita (ragionevole) comune. Spesso si tratta di anni, in cui due generazioni dipendono da noi: i genitori man mano più anziani e i propri figli. Anche in questo senso sono richiesti cura, affidabilità e responsabilità, tutte virtù associate alla Terra. Soltanto dopo i lunghi anni della maturità ci allontaneremo lentamente e passo dopo passo da questa responsabilità, durante il periodo associato al movimento del Metallo.

Karin Wallnofer – la via cinese alla salute

DEPRESSIONE, IL GRIDO DELL’ANIMA

Il male oscuro invisibile della nostra società.
Questa malattia è un segnale che ci avvisa in modo forte e chiaro che qualcosa non sta andando per il verso giusto. Essa ci avvisa che occorre apportare un cambiamento e soprattutto ascoltare la propria anima per ritrovare il contatto con la nostra spiritualità e perseguire lo scopo della nostra vita, invece di seguire valori non nostri.

La depressione è un buco nero nell’anima, è assenza di luce, mancanza di libertà. Luce è energia, vita; laddove c’è assenza di luce, si manifesta la malattia ed infine al suo estremo, la morte. Questo accade sia a livello sottile, nella psiche, sia a livello materiale nel corpo. Corpo e mente non sono separati. Lo sapevano bene anche i latini con la locuzione “mente sana in corpo sano”, ma è vero anche il contrario, “corpo sano in mente sana”, poiché il nostro corpo altro non è che la proiezione della nostra mente.
Può capitare a tutti nella vita di sentirsi un po’ depressi, di avere un calo d’umore e di energia, di attraversare un periodo un po’ buio, ma si tratta di stati d’animo passeggeri che si alternano, un ciclo naturale come l’alternarsi del giorno e della notte. Si parla di depressione vera e propria, quando questo stato d’animo diventa persistente e difficilmente gestibile dall’interno, perdendo ogni interesse e motivazione per la vita. In sostanza, la depressione è un segnale che ci avvisa che qualcosa nella nostra vita non sta andando per il verso giusto, ci avvisa che si rende necessario apportare un cambiamento.
La depressione è il male oscuro, invisibile, della nostra società, il cui stile di vita ci ha allontanati sempre più dalla nostra natura selvaggia, portandoci ad uno squilibrio tra spirito e materia. Il materialismo, una vita abitudinaria e confortevole, ci hanno pian piano indeboliti e resi incapaci di accogliere, accettare ed apportare cambiamento. L’estremo individualismo, in una società dove apparentemente non manca nulla dal punto di vista materiale, ci ha condotti a chiuderci sempre più in noi stessi, portando via luce all’anima, lasciando morire lo spirito. Ed è evidente che oggi il bisogno primario quello di un ritorno alla spiritualità, ad un incontro con noi stessi. Abbiamo perso il nostro potere, quello legato all’istinto e all’intuito, e con questa perdita abbiamo perso la nostra originalità e creatività, per conformarci a modelli standard richiesti dalla società, imprigionando la nostra anima attraverso le dipendenze, le mode, il seguire strade tracciate da altri per noi. La dipendenza è una delle primarie cause della depressione. Ed essa può assumere diverse forme, dalla dipendenza affettiva, alla dipendenza lavorativa, alla dipendenza da internet.

Una pericolosa distorsione: scordare se stessi
Ogni volta che reprimiamo ciò che siamo, seguendo una strada che non sentiamo nostra, indossando maschere di falsa bontà per mascherare la rabbia, di falsa allegria per mascherare la tristezza, di falsa gentilezza per non mostrarci poco gentili; ogni volta che non ascoltiamo ciò che l’istinto e l’intuito ci suggeriscono, ogni volta che mettiamo a tacere e non ascoltiamo la voce interiore che nasce dalle nostre viscere, recidiamo le radici della natura selvaggia del nostro essere profondo. Quando si recidono le radici di un albero, esso muore. Quando s’imprigionano le radici di un albero circoscrivendole e rinchiudendole in un contenitore, impedendone l’espansione nella profondità della terra, anche la sua chioma, per riflesso, ne rispecchierà le radici e non potrà espandersi e protendere verso il cielo. Una mente chiusa da pregiudizi, tabù, principi morali sociali, condizionamenti, è una mente che non è libera di esprimersi attraverso il pensiero e quindi non è in grado di creare. Una mente che non è libera ed ha dei blocchi, ripercuote i suoi blocchi sul corpo fisico. Un corpo che non è libero di esprimersi, di conseguenza si ammala.

Quando ignoriamo le nostre capacità, il valore della nostra luce, che emaniamo attraverso la creatività, l’intelligenza, la bellezza, la generosità, diveniamo facili prede dell’oscurità. Se siamo ignari di questa nostra luce, non la valorizziamo e non la proteggiamo, essa diventa un bersaglio, permettiamo cioè agli altri di abusare di noi. Non dire mai di no per paura di perdere le persone o l’amore significa permettere l’abuso di sé. Se non ci neghiamo la possibilità di amare e creare, allora anche la depressione non avrebbe senso di esistere. Il primo passo, il più importante, è iniziare ad amare se stessi. Spesso l’amore per sé è stato etichettato come egoismo, mentre la nostra cultura religiosa ha sempre esaltato l’amore verso gli altri, prima gli altri e poi tu. Ed è proprio questo che a mio avviso ha generato l’egoismo. L’idea di altruismo nella nostra cultura cristiana è legata intimamente a quella di rinuncia a se stessi: sacrificio considerato come uno dei grandi valori che devono ispirare la vita.

L’altruismo, una maschera per manipolare gli altri
Un principio che proclami l’amore per il prossimo, ma che consideri tabù l’amore per se stessi, ci bandisce dal genere umano. Eppure l’esperienza più profonda di cui è capace un uomo è proprio l’esperienza di sé in quanto essere umano. Amarsi in modo totale, permette all’amore di traboccare e raggiungere gli altri in condivisione.
 Spesso, dietro all’altruismo si nasconde un trucco per possedere gli altri. 
L’altruismo, interpretato come dovere e non come un semplice moto spontaneo di solidarietà amichevole, può diventare una maschera, uno schermo dietro il quale si celano emozioni e intenzioni ben diverse da quelle sbandierate: freddezza, arroganza, prepotenza. L’altruismo è sovente un modo per manipolare la personalità dell’altro.
Nel nostro amore per il prossimo non vi è forse celato un impulso verso la proprietà? Quando vediamo soffrire qualcuno, sfruttiamo, se pur inconsciamente, l’occasione che ci si offre di prenderne possesso. 
Se un individuo può amare solo gli altri, non può amare completamente.

L’egoista in realtà si odia e trae soddisfazione, autostima ed apprezzamento solo attraverso il soddisfacimento dei bisogni altrui, illudendosi così di colmare il suo vuoto, generato dalla non considerazione dei propri bisogni. La necessità di sentirsi indispensabile ed assicurarsi l’amore in cambio, lo induce a creare dipendenze, lasciandolo infine frustrato e deluso ogni volta che i suoi sforzi non vengono riconosciuti e contraccambiati secondo le sue aspettative. È solo un essere infelice e ansioso di trarre dalla vita le soddisfazioni di cui si è privato. 
È più facile capire l’egoismo se lo si paragona ad un morboso interesse per gli altri, come lo troviamo nelle persone troppo premurose. Persone che devono compensare la loro incapacità di amare e che spesso nascondono la paura dell’abbandono, quindi incapaci di un sano distacco e di lasciar andare.
 Questa è una forma di altruismo nevrotico, un sintomo che colpisce molti già affetti da altri sintomi, quali la depressione, la stanchezza, l’incapacità di lavorare, il fallimento nei rapporti col prossimo. Spesso l’altruismo è considerato un tratto positivo del carattere del quale i soggetti si vantano. La persona altruista non vuole niente per sé, vive solo per gli altri, si vanta di non considerarsi importante. È poi sorpresa di scoprire che, ad onta del proprio altruismo, è assai infelice e che i suoi rapporti con coloro che la circondano non l’appagano. Tale persona è inibita nelle proprie capacità di amare e di godere; è piena di ostilità verso la vita e dietro la facciata dell’altruismo si nasconde un sottile ma intenso egocentrismo, nonchè masochismo legato alla sofferenza e al sacrificio. Alla base di queste persone dalla facciata altruistica c’è l’aridità. Solo quando dissolviamo le nostre tenebre, allora la nostra stessa luce si diffonde ed inonda anche agli altri, coloro che circondano. Partire da noi stessi, aiutandoci a ritrovare l’armonia dentro di noi ed amandoci, è il primo passo verso l’altruismo.
di Silvia Deni

L’approccio alla depressione, unito ad un profondo e fondamentale ascolto di sé stessi, può essere affrontato con la Medicina Complementare, la Tecnica Metamorfica ecc. sia per aiutare a sbloccare le cause profonde scatenanti, sia nell’alleviare tutta la serie di disturbi che questa comporta.

LO STRESS DURANTE LA GRAVIDANZA PUO’ ESSERE TRAMANDATO ATTRAVERSO LE GENERAZIONI

Ecco un interessante articolo che dimostra scientificamente l’importanza del periodo di gestazione durante il quale si forma non solo il corpo fisico del futuro nascituro ma anche la sua struttura mentale, emotiva e comportamentale.
Lavorando con la Tecnica Metamorfica e l’ipnosi ci diamo la possibilità di liberare gli schemi formatisi durante tale periodo permettendoci di crescere e vivere in modo equilibrato e senza costrizioni.
Importante trattare con la Tecnica Metamorfica la donna in gestazione, il bambino appena nato e ciascun individuo voglia liberare il proprio potenziale attraverso il risveglio della propria forza vitale e vivere così in una maggior libertà interiore.

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Se la gravidanza presenta delle complicanze o problemi che non si spiegano altrimenti, potrebbe essere lo stress vissuto da una nostra ava (bisnonna, nonna) durante la gravidanza che, come suggerito da uno nuovo studio, può essere trasmesso di generazione in generazione.
Ci sono delle gravidanze che presentano delle complicanze o problemi che, spesso, non si spiegano altrimenti o che insorgono per un motivo non ben chiaro. Oggi, un nuovo studio pubblicato su BMC Medicine (di BioMed Central) suggerisce che potrebbe trattarsi di stress. Ma non lo stress della donna attualmente incinta, ma quello vissuto magari dalla bisnonna o un’altra parente vissuta generazioni prima.

I ricercatori dell’Università di Lethbridge in Canada hanno così scoperto che gli effetti epigenetici ereditati dello stress possono influenzare le gravidanze per generazioni. E per arrivare a queste conclusioni hanno condotto uno studio su modello animale in cui sono stati osservati gli effetti dello stress su quattro generazioni.
Il focus dello studio erano i parti pretermine, o prematuri. Questo genere di complicanza è piuttosto diffusa ed è causa principale di morte neonatale, oltre a essere causa di problemi di salute più tardi nella vita.

La decisione di lavorare con le gravidanze dei ratti è stata presa perché queste presentano solo una piccola variazione tra di esse, quanto a lunghezza.
Il primo passo è stato quello di sottoporre una prima generazione di ratti a stress verso la fine della gravidanza. Le seguenti due generazioni sono state poi divise in due gruppi, che erano o stressati o meno stressati. I risultati dei test hanno rivelato che le figlie dei topi femmina stressati avevano gravidanze più brevi rispetto alle figlie di coloro che non erano state poste sotto stress. Ma ciò che ha più sorpreso i ricercatori è stato che le nipoti dei topi stressati avevano gravidanze più brevi, anche se le loro madri non erano state sotto stress.
Altre evidenze emerse dallo studio erano che, oltre alle gravidanze più brevi, i topi femmina le cui nonne e mamme avevano vissuto esperienze di stress, mostravano livelli di glucosio più elevati rispetto al gruppo di controllo. Inoltre, i ratti le cui nonne o madri sono state stressate pesavano meno.

«Abbiamo dimostrato che lo stress attraverso le generazioni diventa abbastanza potente per accorciare la lunghezza della gravidanza nei ratti e indurre un caratteristico parallelo parto pretermine umano – spiega la dott.ssa Gerlinde Metz, autore senior dello studio – Un risultato sorprendente è che da lieve a moderato stress durante la gravidanza aveva un effetto di capitalizzazione attraverso le generazioni. Pertanto, gli effetti dello stress crescevano sempre più con ogni generazione».

I ricercatori ritengono che questi cambiamenti siano dovuti all’epigenetica, ossia la disposizione e l’espressione dei nostri geni. E, sulla base di questo studio, i ricercatori ritengono che i cambiamenti epigenetici sono dovuti ai microRNA (miRNA) – o molecole non codificanti di RNA – che svolgono un ruolo nella regolazione dell’espressione genica.
«Gli studi epigenetici precedenti hanno riguardato principalmente l’eredità delle siglature della metilazione del DNA – fa notare la Metz – Quello che non sapevamo era se i microRNA, che sono importanti biomarcatori della malattia umana, possono essere generati da esperienze ed ereditati attraverso le generazioni. Ora abbiamo mostrato che lo stress materno può generare modifiche miRNA con effetti nelle diverse generazioni. Penso che questa sia una caratteristica interessante del nostro lavoro».

Gli scienziati ritengono che siano necessari altri approfondimenti e ricerche per comprendere i meccanismi che generano queste firme epigenetiche e come queste vengono tramandate di generazione in generazione. Con la conoscenza di questi meccanismi può essere possibile prevedere e prevenire un parto prematuro, ma anche altri disturbi.
«Le nascite pretermine possono essere causate da molti fattori. Nel nostro studio forniamo nuove informazioni su come lo stress nelle nostre mamme, nonne e oltre potrebbe influenzare il nostro rischio per la gravidanza e le complicazioni del parto. I risultati hanno implicazioni al di fuori della gravidanza, in quanto suggeriscono che le cause di molte malattie complesse potrebbero essere radicate nelle esperienze dei nostri antenati. Quando comprenderemo meglio i meccanismi delle firme epigenetiche ereditarie, saremo in grado di predire il rischio di malattie e potenzialmente ridurre il rischio futuro di patologie», conclude la dott.ssa Gerlinde Metz.

Altri autori dello studio: Youli Yao, Alexandra M Robinson, Fabiola CR Zucchi, Jerrah C Robbins, Olena Babenko, Olga Kovalchuk, Igor Kovalchuk, David M Olson.

 

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