Gen 25, 2021 | AGOPUNTURA, ALIMENTAZIONE E SALUTE, MEDICINA FUNZIONALE, MEDICINA QUANTISTICA, OMEOPATIA
I pazienti affetti da depressione sono caratterizzati da alterazioni del microbiota intestinale che potrebbero quindi facilitare la diagnosi di questa patologia.
Il microbiota intestinale è stato associato a una pletora di disturbi, incluse alcune patologie che coinvolgono il cervello. Di recente, un gruppo di ricercatori ha scoperto che i pazienti con disturbo depressivo maggiore (MDD) hanno una “firma” microbica diversa rispetto alle persone sane.
I risultati, pubblicati su Science Advances, suggeriscono che i pazienti affetti da depressione sono caratterizzati da alterazioni del microbiota intestinale che potrebbero facilitare la diagnosi di questa patologia.
La depressione maggiore è un disturbo dell’umore caratterizzato da sentimenti persistenti di tristezza o mancanza di interesse per gli stimoli della vita ordinaria. Studi precedenti hanno scoperto che le persone con MDD hanno alterazioni del microbiota intestinale, ma si sa ancora poco su quali siano i microbi intestinali che differiscono tra le persone sane e i pazienti con questa patologia.
Per tracciare un quadro più preciso dei microrganismi presenti nell’intestino degli individui con MDD, un team di ricercatori guidato da Jian Yang della Capital Medical University e Peng Zheng della Chongqing Medical University, in Cina, ha analizzato 311 campioni fecali raccolti da 156 persone con MDD e 155 individui sani.
La depressione nasce nell’intestino?
I ricercatori hanno identificato 47 specie batteriche la cui abbondanza differisce significativamente nelle persone con depressione maggiore rispetto agli individui sani. In particolare, nei pazienti con MDD sono stati riscontrati livelli più alti di 18 specie batteriche, inclusi microbi appartenenti al genere Bacteroides, e livelli più bassi di 29 specie, tra cui Eubacterium e Blautia.
Una maggiore abbondanza di Bacteroides e livelli ridotti di Blautia nel microbiota intestinale potrebbero spiegare perché le persone depresse tendono ad avere livelli elevati di citochine e dell’infiammazione associata rispetto alla popolazione generale.
Sebbene i ricercatori non abbiano trovato differenze significative tra la composizione virale intestinale delle persone con depressione maggiore e controlli sani, sono stati identificati tre batteriofagi, ovvero virus che infettano solo i batteri, che sono risultati meno abbondanti negli individui con MDD.
Metaboliti intestinali possibili biomarker della depressione
Successivamente, il team di ricercatori ha analizzato le molecole prodotte dal microbiota intestinale dei due gruppi di partecipanti allo studio; sono stati così identificati 16 metaboliti più abbondanti e 34 meno abbondanti nelle persone con depressione rispetto ai controlli sani.
La maggior parte di queste molecole è risultata coinvolta nel metabolismo di molecole tra cui l’acido gamma-aminobutirrico (GABA), il principale neurotrasmettitore inibitorio del cervello umano.
I ricercatori hanno quindi sviluppato un biomarker costituito da due specie batteriche, due batteriofagi e due metaboliti. Utilizzando questa “firma” microbica, i ricercatori sono stati in grado di distinguere le persone con depressione maggiore dai controlli sani in un gruppo di 75 individui.
Un biomarcatore simile potrebbe essere quindi utilizzato, nell’ambito dell’indagine diagnostica, per testare la presenza di alcuni elementi all’interno del microbiota intestinale.
Conclusioni
I risultati suggeriscono che la depressione maggiore è caratterizzata da alterazioni del microbiota intestinale che possono facilitare la diagnosi di questo disturbo mentale.
Da:https://microbioma.it/gastroenterologia/nel-microbiota-intestinale-la-firma-della-depressione/
Dott. Mauro Piccini
Gen 7, 2021 | AGOPUNTURA, ALIMENTAZIONE E SALUTE, MEDICINA FUNZIONALE, OMEOPATIA, PILLOLE DI RIFLESSIONE
Il dolore che si manifesta sul piano fisico è sempre il riflesso di un dolore morale che non ha trovato altro modo per esprimersi. Ed è spesso per evitare si essere sommersa che la nostra coscienza si mette al riparo da questo dolore morale, deviandolo almeno in parte nel corpo. L’emozione, a volte, è tale da poter affondare l’immagine che abbiamo di noi, per la quale proviamo a volte un tale attaccamento, che come se non esistesse altro nella vita.
L’immagine del capitano della nave che non l’abbandona nel naufragio evoca la necessità di “mollare” secondo la quale basterebbe coltivare il distacco, lasciare andare la collera, le emozioni e perdonare, e così via.
L’idea non è sbagliata, ma cos’è che bisogna mollare? Non serve a nulla al malato che soffre di sciatica sentirsi dire che dovrebbe lasciare andare la sua collera.
Le cose non sono così semplici, perché il tutto avviene a nostra insaputa, e la nostra difficoltà non sta tanto nel mollare la presa, quanto nel riconoscere. Mollare la presa deriva dalla presa di coscienza e questo in modo del tutto naturale ed indolore. La difficoltà non sta tanto nel prendere le distanze, quanto nel riconoscere ciò che sta succedendo.
Ecco perché ho parlato di punto cieco a proposito dello stress. Ci salva il fatto di avere due occhi e dunque la capacità di vedere la situazione che ci ha presi in trappola da una prospettiva diversa.
L’essere umano è causa di sofferenza e di danni intorno a sé, in quanto essere imperfetto. Ci è facile ritenerci vittime, senza essere sempre consapevoli dei guai che noi stessi causiamo; accettare l’imperfezione umana è l’inizio del perdono autentico, che si presenta come una comprensione profonda e uno slancio del cuore.
Altra forma di perdono, che desidero menzionare, non è tanto un perdono ma quanto piuttosto un riconoscimento, che avviene quando prendiamo coscienza della nostra parte di responsabilità in quanto ci accade. In situazioni conflittuali, accade raramente che il torto stia tutto da una parte sola, e se da un lato siamo innocenti, dall’altro abbiamo le nostre responsabilità. La questione vera, quando tutto questo ci fa ammalare, è capire cosa quel conflitto sottolinea dentro di noi e perché questo ci fa star male. Guardare la situazione con onestà richiede un grande distacco da se stessi, il che è anche l’inizio della guarigione.
Uno dei principali ostacoli alla nostra libertà, come anche alla nostra comprensione, è il diniego. Attraverso la malattia cerchiamo di preservarci e talvolta questa proiezione è talmente efficace che non filtra assolutamente nulla sul piano conscio.
La libertà non consiste nel liberarsi delle persone che ci stanno intorno o dei nostri obblighi, perché non vuol dire necessariamente “cambiare vita”; si tratta invece di liberarci di certe illusioni che hanno intrappolato per troppo tempo la nostra coscienza. Non possiamo cambiare il mondo esterno solo perché così decretiamo, ma l’esterno muta quando, dentro, siamo liberi.
Proprio come lo stress, la malattia che combattiamo è una medaglia a due facce: da un lato è nemica, ma dall’altro tenta di guarirci.
La malattia cerca di guarirci dall’emozione che l’ha generata.
Gestiamo le emozioni complesse attraverso il corpo e non ce nulla di male nel farlo. La malattia è un evento naturale, di cui non bisogna colpevolizzarsi, proprio come non dobbiamo colpevolizzarci per non riuscire a guarire dopo aver letto molti libri sull’argomento.
La malattia fa parte della condizione umana e deve essere una fase da accettare come tale.
Allora l’incontro con ciò che può guarirci avviene solo per caso (e come diceva Einstein: “il caso è la maschera che Dio assume quando non vuole farsi riconoscere”) quando siamo pronti e si prepara attraverso una serie di tappe silenziose, per mezzo delle quali la malattia cerca di liberarci dalla nostra sofferenza.
Dott. Mauro Piccini
Dic 23, 2020 | AGOPUNTURA, ALIMENTAZIONE E SALUTE, MEDICINA FUNZIONALE, OMEOPATIA, PILLOLE DI RIFLESSIONE
Come è possibile immaginare che attraverso la malattia e la sofferenza stiamo preservando qualcosa?
Quello che diciamo attraverso la malattia è che abbiamo ragione di aver male.
Con la malattia, in qualche modo noi ci giustifichiamo, giustifichiamo la fondatezza dei sentimenti che proviamo, mostrando che non sono una visione mentale bensì una realtà oggettiva.
Con la malattia abbiamo le prove della nostra sofferenza, ma di tutto questo non siamo coscienti e il prezzo da pagare è alto.
Prendiamo a testimone il corpo, attraverso il quale anche le persone che ci stanno accanto diventano testimoni. Se dite ad una persona che soffre, che il suo è un disturbo psicologico, probabilmente vi ribatterà che a lei fa male e che quel male è reale. E anche aggiungerà anche che voi, che avete la fortuna di star bene, non potete capire che cosa sta passando.
Siamo malati e bisogna che i nostri cari vi si adattino; facendo della nostra sofferenza morale una realtà fisica, togliamo loro la possibilità di ignorarla o di prendere le distanze rispetto a questa realtà. Ma , in realtà, siamo noi i primi a soffrirne e l’impotenza delle persone care nel darci sollievo ci lascia da soli.
Solitamente si incrimina lo stress come causa iniziale della malattia.
Tuttavia la nostra vita è piena di preoccupazioni, delusioni, rabbie. Gli stress con cui ci confrontiamo sono molti e permanenti.
Ma allora ogni volta ci ammaliamo? Certo che no. Ci vuole un altro fattore perché lo stress ci faccia ammalare. E questo non dipende dall’intensità dello stress, ma da altre due cose: il luogo in cui lo stress si manifesta e la complessità dell’emozione che proviamo.
Quella che per uno è una situazione drammatica, per una altro è solo un’esperienza senza rilevanza.
Stress è un termine inglese che significa “ sottolineare” , “ mettere l’accento su qualcosa”.
Immaginate l’esempio della quercia e del giunco.
Si scatena una tempesta, il giunco si piega e si adatta, mentre la quercia è troppo rigida e finisce per spezzarsi. Ciò che il vento “ sottolinea” è la rigidità della quercia; ma il vento di per sé è neutro, e infatti per il giunco è solo un gioco. Immaginate, ora, un uccello posato sul ramo della quercia e poi sul giunco. La quercia è rigida, ma è solida e capace di sostenere chi in essa trova rifugio, si fa carico di questo peso, mentre il giunco non ne è affatto capace. Tanto per la quercia come per il giunco, lo stress ha delle conseguenze soltanto quando “ sottolinea” un difetto della struttura; difetto che come vedete è come una buona qualità che è presente in quantità eccessiva.
Per noi , dunque, non è tanto lo stress, in sé e per sé, ad essere dannoso, ma ciò che lo stress sottolinea.
Non è l’intensità dello stress a spiegare la malattia. Vi sono persone che vivono situazioni difficilissime senza per questo ammalarsi, ma poi si ammalano in seguito ad uno stress la cui intensità ci sembra decisamente inferiore. Questo ha a che fare con la nostra struttura. Il corpo del bambino piccolo è morbido ed elastico ma, si addensa con l’età tanto per tenerci in piedi quanto per affrontare la vita. Accade qualcosa di simile anche sul piano psicologico. Ci “addensiamo” ogni tanto prendiamo dei colpi che ci induriscono e piano piano ci cristallizzeremo. Non sono le nostre zone flessibili ad essere problematiche, ma le zone cristallizzate che presumibilmente reagiranno malamente agli urti.
La vita ci induce a lavorare proprio sui punti della cristallizzazione, per ammorbidirli.
E’ raro che uno stress grave si presenti senza essere stato preceduto da qualche messaggio che abbiamo ignorato.
Ciascuno di noi ha un suo “punto cieco”, una zona di sé, del proprio atteggiamento, nel quale inciampa ogni volta, come se fosse incapace di vederla.
La nozione di “punto cieco” si riferisce al punto cieco della nostra retina, e il paragone non è trascurabile. Infatti, quando guardiamo il mondo con un occhio solo, quella piccola parte di esso che viene proiettata sulla retina non viene percepita; per fortuna abbiamo due occhi e la vista dell’uno compensa il punto cieco dell’altro. In questa idea si nasconde una chiave per la nostra guarigione, perché ciò che l’altro occhio ci dà, è la possibilità di guardare da un punto di vista diverso la realtà in cui incespichiamo.
L’emozione che proviamo è come un groviglio di sentimenti contraddittori. Se siamo in collera con una persona che ci è indifferente, si tratta di un sentimento sgradevole ma abbastanza semplice da gestire; questa seccatura ci irriterà ma non ci toccherà nel profondo. Se però la situazione ci tocca su di un punto involontariamente ambiguo o contradditorio allora le cose cambiano.
Questa contraddizione, di solito, è nascosta.
Ecco perché attraverso la malattia cerchiamo di dirci le cose, ma senza dircele chiaro e tondo. Resta una parte di equivoco, una zona nascosta.
Scoprire che il nostro mal di gola è il risultato della collera non è tanto difficile, ma quel che è difficile è svelare quale sentimento si nasconde dietro a quella collera.
Dott. Mauro Piccini
Dic 3, 2020 | AGOPUNTURA, ALIMENTAZIONE E SALUTE, MEDICINA FUNZIONALE, OMEOPATIA, PILLOLE DI RIFLESSIONE
Attraverso la malattia parliamo a noi stessi e prendiamo il nostro corpo come un testimone: la manifestazione, la lesione e il dolore sono il riflesso preciso delle emozioni che stiamo vivendo.
I sentimenti si trasformano in sensazioni e questo ci irrita, ci da fastidio; ma che cosa ci irrita e ci rode e a che cosa quel dolore è sordo?
Il medico ci ascolta e scrive “gastrite”; su nostra richiesta “classifica” ciò che proviamo e questo ci rassicura, diventa qualcosa di noto e misurabile.
Ma così facendo, quello che cercavamo di comunicarci attraverso questo sintomo ha buone possibilità di essere accantonato in cantina.
La diagnosi è un atto necessario ma è un arma a doppio taglio. Confidare la malattia al nostro medico è logico perché ha il compito di aiutarci e di curarci, ma se gli deleghiamo la responsabilità di ciò che proviamo, se la malattia diventa una faccenda solo del medico che ne sarà dell’interrogativo, che attraverso di essa rivolgiamo a noi stessi?
Quindi perdiamo il senso di quello che cerchiamo di comunicare a noi stessi. Dato che ci parliamo usando il corpo come metafora, ecco che ciò che tentiamo di comunicare diventa incomprensibile. Soffriamo senza sapere il perché, come se ci mancasse la chiave di comprendere il messaggio, ascoltare la propria malattia come un linguaggio interiore è un primo passo verso la guarigione
.
La malattia è un modo di comunicare sia con se stessi che con gli altri perché, consapevolmente o meno, in tal modo esprimiamo ed esterniamo il nostro mal-essere.
La metafora è un “procedimento del linguaggio che consiste nel modificare il senso attraverso una sostituzione analogica”.
La metafora è il modo più semplice e diretto per esprimere qualcosa che è difficile da definire. E molto spesso ci serviamo di uno dei nostri organi come metafora per comunicare con noi stessi e dirci qualcosa di figurato.
Le impressioni fisiche che proviamo sono un modo di descrivere ciò che sentiamo. Anche il punto del corpo in cui si manifesta il nostro malessere non è casuale. In qualche modo, inconsciamente, scegliamo l’organo che la malattia colpisce. La scelta è tutt’altro che casuale, perché corrisponde alla nostra percezione inconscia di quell’organo o della sua funzione. Ciò a cui serve l’organo, viene usato come metafora per esprimere il disagio.
La malattia è un modo curioso di dirci le cose, perché è come se ci parlassimo a mezzi termini. Quando parliamo del “capo” di un azienda è una metafora perché l’azienda non ha un “capo” più di quanto abbia “i piedi”; ma ognuno di noi sa che la testa, “IL CAPO” è la parte che dirige, quindi tutti capiscono cosa vuol dire.
Tutt’altro può essere che un mal di capo rifletta il nostro dolore nel non potere dirigere a nostro piacimento certe situazioni. In questo modo, attraverso la malattia, ci capiamo. Contemporaneamente, però non capiamo che cosa ci sta succedendo, perché mai ci siamo ammalati, né a cosa serva questa sofferenza dalla quale aspiriamo solo a liberarci velocemente.
Sul fatto che certe malattie siano psicosomatiche tutti sono d’accordo.
Ma le altre malattie che siano infettive o di origine meccanica (ernia del disco) o tumorali sono anch’esse un modo di parlare a noi stessi? La causa della malattia ha due facce. Non ha senso dire quale sia quella giusta, perché lo sono entrambe: nessuno nega la responsabilità di un microrganismo o di un’ernia.
E’ difficile vedere in contemporanea il lato testa e croce della stessa medaglia; i nostri occhi ce lo impediscono e la mente, come gli occhi, ha bisogno di prendere in considerazione i due aspetti separatamente.
Non scordate l’immagine delle due facce della medaglia. Queste due facce sono giuste entrambe e quando si parlerà della dimensione psicologica di una sciatica, non sarà per negare l’esistenza di un’ernia discale e viceversa.
Ciò che vale per la malattia può valere anche per gli incidenti, i traumi, le fratture. La cosa può sembrare sorprendente, ma spesso tutto accade come se il mondo esterno e i nostri pensieri entrassero in risonanza.
Gli incidenti segnano momenti di rottura nella nostra vita e talvolta sono dei veri e propri punti di non ritorno; ma sono anche occasioni di apertura ad una vita diversa o ad un’altra dimensione dell’esistenza.
Prendiamo a testimone anche il mondo esterno e accade che siamo noi a suscitare questi eventi, come se attraverso di essi cercassimo di dirci qualcosa. Attraverso i nostri pensieri e i nostri atteggiamenti risvegliamo certe reazioni intorno a noi, prepariamo situazioni destinate a maturare e a trovare compimento in eventi che si produrranno anche più tardi. Un evento, che si tratti di un incidente o di una stress di altra natura, può essere il messaggero segreto di un nostro desiderio segreto: ciò che pare l’esito del caso spesso è suscitato dal desiderio di cambiare qualcosa nella nostra vita.
Recenti studi americani hanno dimostrato che il profilo psicologico delle persone che hanno incidenti gravi è simile a quello dei suicidi.
Dott. Mauro Piccini
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Mag 7, 2020 | AGOPUNTURA, ALIMENTAZIONE E SALUTE, MEDICINA FUNZIONALE, OMEOPATIA
Negli ultimi anni l’oncologia sta andando verso una rapida evoluzione. L’aspetto globale del paziente non solo dal punto di vista fisico, ma anche psico-emozionale ha trovato una crescente considerazione, anche grazie ai diversi Plan Cancer che ci hanno consentito di rimettere il paziente al centro delle nostre priorità non vedendolo più come un organo ammalato ma come un insieme di sistemi interagenti tra loro.
Le medicine complementari non sono più stigmatizzate come una volta; sempre più dipartimenti di oncologia “integrano” le competenze degli specialisti in queste medicine cosiddette dolci e, come negli Stati Uniti, cominciano ad apparire lavori scientifici che assegnano un posto adeguato alle cure non convenzionali.
I dati pubblicati dimostrano che i pazienti affetti da tumore fanno uso delle medicine complementari, spesso senza comunicarlo al proprio oncologo.
Sta avvenendo sempre di più il riconoscimento da parte degli oncologi dell’efficacia e dell’innocuità di questi approcci.
Molte volte, a causa della forte tossicità, a molti pazienti non è permesso il trattamento oncologico tradizionale. Quindi l’approccio con la medicina integrata rimane l’unica possibilità che può essere data per gestire la malattia.
Diverse discipline si possono articolare insieme nella cura del paziente oncologico.
L’agopuntura aiuta a stimolare e a mantenere il più attiva possibile l’energia globale del paziente riuscendo a modulare l’astenia e la bassa vitalità alle quali vanno incontro la maggior parte dei pazienti oncologici.
L’omeopatia permette, oltre a contrastare gli effetti secondari negativi, di mantenere in equilibrio i sistemi più esposti al carico del trattamento convenzionale chemioterapico e/o radioterapico e di modulare egregiamente l’aspetto psico-emozionale inevitabilmente messo alla prova dalla malattia.
La fitoterapia e la micologia agiscono direttamente sul sistema immunitario attivandolo in modo specifico verso le cellule cancerogene e fornendo sostanze ad azione antiossidante ed antiinfiammatoria.
Dott. Mauro Piccini
Set 9, 2019 | AGOPUNTURA, ALIMENTAZIONE E SALUTE, MEDICINA FUNZIONALE, NEURALTERAPIA, OMEOPATIA, PILLOLE DI RIFLESSIONE
La menopausa è un passaggio naturale ed obbligato con cui ogni donna, nella propria vita, si trova a confrontarsi. Nonostante sia caratterizzata da notevoli cambiamenti nell’organismo la menopausa non è una malattia: coincide, infatti, con la cessazione del ciclo mestruale e della vita riproduttiva femminile.
Si definisce “menopausa” l’ultima mestruazione della donna. La donna è in menopausa quando è trascorso almeno un anno dall’ultimo ciclo mestruale.
Si parla di menopausa quando le mestruazioni cessano definitivamente ed in modo irreversibile, mentre il periodo che precede e segue la menopausa (detto perimenopausa), di durata variabile, è caratterizzato da una complessa sintomatologia fisica ed emotiva, tra cui le note vampate di calore, sonno disturbato, irritabilità, tristezza, ansia, tachicardia, modificazioni della libido, depressione, secchezza vulvo-vaginale.
Si definisce, invece, climaterio il periodo di transizione tra la vita riproduttiva e la menopausa.
La menopausa è fisiologica quando avviene tra i 48 e 52 anni si presenta a seguito della cessazione di produzione, da parte delle ovaie, degli ormoni riproduttivi (estrogeni).
Alcune donne entrano in menopausa senza particolari fastidi, quasi senza accorgersi dei mutamenti a cui va incontro il proprio organismo, mentre altre manifestano sintomi che possono anche essere importanti. La fluttuazione prima, e il calo dopo, dei livelli di estrogeni sono infatti responsabili di diverse modificazioni fisiche e psichiche definite nel complesso “sintomi della menopausa”.
Nonostante la menopausa sia un passaggio naturale non sempre esso arriva in modo “indolore”.
E’ importante accompagnare la persona attraverso un lavoro sinergico tra mente e corpo affinché possa attraversare questa fase così delicata nel miglior modo possibile.
L’approccio della medicina convenzionale si basa sulla somministrazione di una terapia ormonale detta sostitutiva che mira a ridurre i sintomi presentati. L’approccio della medicina complementare (agopuntura, omeopatia, omotossicologia, fitoterapia, medicina funzionale ecc.) cerca in modo più dolce e fisiologico di aiutare la donna ad affrontare al meglio il periodo di transizione modulando non solo gli aspetti fisici ma anche quelli psico-emozionali che si possono presentare.
Il trattamento è più efficace se la donna si sottopone a regolazione già nella prima fase di rottura degli equilibri senza aspettare ad affrontare il carico quando questo è nel massimo delle sue potenzialità.
La vita può essere paragonata al corso di un fiume. Il periodo della menopausa è solo un tratto di fiume che presenta delle rapide. Lo scopo della terapia è quello di permettere di attraversare questo tratto al meglio per poter giungere di nuovo nelle calme e rassicuranti acque della vita.
Dott. Mauro Piccini