Gen 2, 2019 | ALIMENTAZIONE E SALUTE, MEDICINA FUNZIONALE, OMEOPATIA
La relazione mente-corpo ha interessato ed affascinato intere generazioni di studiosi che nel corso degli anni hanno indagato il potere della mente sull’insorgenza e sul decorso di varie malattie organiche e viceversa l’influenza del corpo sullo stato psicoemotivo.
L’approccio al problema è stato inizialmente di tipo empirico, a partire dalle svariate storie di guarigioni miracolose che hanno messo in luce l’influenza di determinate convinzioni e dell’atteggiamento di fede sullo sviluppo degli effetti terapeutici. In seguito l’indagine ha acquisito maggior rigore sperimentale, e i risultati hanno confermato l’azione della mente sul corpo, benché al momento i risultati non siano univoci, a conferma della complessità della questione. Recentemente la focalizzazione dell’attenzione sul sistema immunitario, già da tempo noto per la sua azione difensiva nei confronti degli agenti estranei, con il fine di garantire l’identità biologica individuale, ha messo in luce una nuova connessione tra la mente ed il corpo, con il risultato che oggi non è più così chiaro se il sistema immunitario sia “al servizio” del corpo o in pari misura “della mente”.
Per esprimere la “grande connessione” tra i sistemi dell’organismo un tempo ritenuti indipendenti, è nata una nuova branca della Medicina, la Psiconeuroendo-crinoimmunologia, indicata con la sigla PNEI, a cui apportano il loro contributo, studiosi di diverse specialità come neurologi, psichiatri, biologi molecolari, immunologi, endocrinologi. Questa disciplina indaga le modalità con cui la psiche, il sistema nervoso ed il sistema immunitario s’influenzano in modo vicendevole. Al di là dell’interesse speculativo, questo nuovo campo d’indagine appare interessante e proficuo per le prospettive pratiche che consentirebbero di prevenire l’insorgenza di alcune malattie o di contribuire alla loro guarigione.
Oggi appare sempre più evidente che il corpo non è solo una macchina, in senso meccanicista e non ha più senso ritenere che il cuore o il cervello siano la sede unica delle emozioni e della coscienza. Se fino a qualche anno fa si riteneva che i neuropeptidi costituissero la forma di linguaggio e di comunicazione delle cellule nervose tra loro o con le cellule muscolari o con quelle ghiandolari, attualmente, si può affermare con certezza che queste molecole sono prodotte anche dalle cellule immunitarie e viceversa queste ultime sono dotate di recettori, sorta di chiavi molecolari inserite nella loro membrana cellulare, che ricevono e decodificano la comunicazione portata da neuropeptidi prodotti in altri organi ed apparati. Si può così concludere che i neuropeptidi sono mediatori sia delle informazioni sia delle emozioni e che agiscono nei più svariati sistemi dell’organismo. Il sistema immunitario è oggi considerato come un organo recettore periferico, un “sesto senso” che percepisce elementi dell’ambiente che sfuggono ad altri sensi, elementi non solo connotati in senso biologico stretto ma caratterizzati da valenze cognitive.
Stanno emergendo dati sempre più numerosi che evidenziano l’effetto immunodepressivo dello stress e viceversa l’azione potenziante le difese immunitarie che è esercitata da uno stile di vita in cui il ruolo stressogeno viene ridotto con svariate modalità. Lo stress, infatti, ha molteplici ripercussioni sul corpo ma anche sulla mente. La mente stessa contribuisce all’insorgere dello stato di stress attraverso la valutazione cognitiva di quello che ci accade, in relazione al significato che non gli attribuiamo e alle modalità di cui disponiamo per farvi fronte. A parità di evento, ci si può sentire “sfidati” a dare il meglio di sé, o abbattere, ritenendo l’accadimento una calamità che rende impotenti. Nel primo caso lo stress è benefico, e si configura, come lo definiva lo studioso Selye, il “sale della vita”, che dà sapore alla nostra quotidianità, spingendoci all’azione ed all’evoluzione personale. Al contrario, nella seconda eventualità, diventa la premessa per una condizione d’impotenza, che se intensa o protratta può evolvere in depressione, con un coinvolgimento della psiche e del corpo, anche attraverso la sua influenza sulle funzioni immunitarie, che vengono modulate negativamente, così da esporre l’individuo ad un maggior rischio di malattia.
Dott. Mauro Piccini
https://www.neuroscienze.net/pnei/
Dic 21, 2018 | MEDICINA FUNZIONALE, OMEOPATIA, PILLOLE DI RIFLESSIONE
Carattere: insicuro ma insoddisfatto
Emozione primaria: frustrazione
Conflitto: di svalutazione
Diritto negato: di imporsi sugli altri
Paura: della libertà
Illusione di sé: se faccio il bravo bambino sarò amato
Comportamento: remissivo e provocatorio
Energia fisica: medio-bassa;
Energia mentale: alta (+ecto, -meso, +endo)
Colore utile: rosso, dà la forza di reagire e il coraggio di vivere
Le tre fasi della vita in un batter d’occhio: nel passato sono stato oppresso, vivo il presente in virtù del futuro per non essere frustrato, ma ho Paura del futuro perché potrei sentirmi libero.
Un’anima oppressa è la più insicura tra tutte le anime ferite; questo è lo stato emotivo che conduce la personalità a considerarsi incapace; l’oppresso accetta completamente il volere dell’altro, che è visto come colui che sa e lo può proteggere dalle insidie del mondo. Diventa facilmente succube dell’amore egoistico e possessivo. Proverà frustrazione ogni volta che gli verrà chiesto o imposto un atteggiamento, una scelta, una decisione di vita. Spesso alla base di tale atteggiamento c’è il bisogno di sentirsi amato e protetto, oltre che il senso di incapacità.
L’oppressione arriva avvolgente come una finta certezza di un luogo sicuro in cui si percepisce come “bello” il fatto di lasciarsi opprimere. L’oppressione è esercitata nel rapporto a due, l’oppressore trasforma l’amore in un’arma e giustifica le sue azioni, il suo agire negativo dichiarando che “lo fa per il bene dell’altro”, nell’oppresso c’è la compiacente remissione ai voleri dell’oppressore. La conseguenza finale che si instaura in quest’anima è una profonda frattura interna nella persona, che non sa più riconoscersi come soggetto e non sa più entrare in contatto con la sua anima. La strada per la libertà dovrà passare attraverso il riconoscimento della propria debolezza, del non pensarsi più come “figlio di quella madre” o “marito di quella moglie”. La libertà dell’anima oppressa sta nel non esistere più in funzione di quel solo rapporto, ma spezzando le catene o il cordone ombelicale e accettando con coraggio la separazione e la conseguente solitudine affettiva.
Il carattere è insicuro ma insoddisfatto. Il soggetto oppresso è il classico figlio di papà, il cocco di mamma che a 40 anni vive ancora a casa perché si sente protetto e accudito. Fin da piccolo è stato costretto a non fare, perché ogni sua azione, ogni sua decisione poteva essere pericolosa o non in sintonia con l’ideale di educazione perfetta della famiglia di appartenenza. Il dover sempre stare attento e aspettare che fossero gli altri a decidere per lui lo ha costretto ad assumere un comportamento di totale sfiducia in se stesso; è sempre succube delle scelte altrui, non sa decidere e se lo deve fare cade in uno stato d’ansia patologica con tremori, disturbi intestinale, sudorazione specialmente alle mani. Accetta ciò che gli viene imposto nel nome dell’amore e del suo bene, ma dentro di sé cresce una forma di ribellione rabbiosa che a volte sfocia in crisi violente verbali e/o fisiche. La frustrante sensazione di non poter crescere, lo rende nervoso e impaziente, vorrebbe ribellarsi ma ha paura di conquistarsi la libertà che sarebbe sinonimo di autonomia. Questa guerra interiore si trasforma in vittimismo, tutto il mondo sembra tramare contro di lui, non c’è niente che possa renderlo felice o gratificato.
Ogni scelta dipende dalla scelta del genitore, del partner, dell’amico. Non compie mai una scelta autonoma, dunque come può essere felice e gratificato? E allora vige la legge della lamentela, non c’è nulla che va bene perché nulla è conseguenza delle sue decisioni. Il remissivo vittimismo accompagnato a un costante atteggiamento lamentoso rappresenta l’unica arma per provocare e umiliare chi lo opprime; è una forma estrema per esasperare e condurre all’azione finale il suo oppressore: farsi lasciare.
La ferita dell’oppresso compare fin dai primi vagiti quando ogni azioni fisiologica e naturale (defecare, mingere, eruttare, piangere, urlare) diventano non la normale espressività di chi sta imparando a chiedere, ma una preoccupazione per i genitori. Spesso era la madre ad innescare questa ferita perché è lei che viveva con estrema ansia e amore possessivo la venuta del primogenito, ma oggi nelle coppie l’ansia avvolge entrambe i genitori e spesso è il Padre a preoccuparsi eccessivamente della salute del proprio figlio, “è l’unico figlio che mi posso permettere economicamente, deve stare bene non può stare male per” … stare male Io stesso.. “Non piangere, mangia questo, cosa succede, hai mal di pancia, bevi questo, non fare questo ma fai quest’altro, cosa ti senti, e via dicendo”. Ogni azione del bambino è limitata al volere del padre-padrone o della madre-matrona: deve sottostare alle scelte di un genitore che decide per lui nel bene e nel male. Il tipo oppresso si sviluppa in una famiglia che lo ha investito di troppo amore, un affetto soffocante e opprimente, l’attenzione ricevuta nel quotidiano ha reso il bambino insicuro e incapace di intendere e di volere, mentre dentro di sé la rabbia repressa si trasforma in provocante ribellione che, se non espressa nella ritrovata libertà, diverrà una frustrante vita di omertà. Il risultato finale sarà remissione o ribellione, non c’è una via di mezzo.
L’emozione innata in chi cerca di sanare la ferita dell’oppressione, è la frustrazione, un stato psicologico risultante dal mancato o inibito soddisfacimento di un bisogno per cause esterne o per conflitti interni al soggetto, che consegue a ripetute delusioni o umiliazioni. L’ottusità è una delle cause principali che scatenano la frustrazione. Fra le altre, potremmo aggiungere l’egoismo, l’insensibilità, l’immaturità, l’incapacità di uscire dalla visione soggettiva della realtà, in poche parole la frustrazione uccide ogni energia.
La paura Esistenziale è quella della libertà, di poter decidere, di avere impegni o doveri non desiderati, della famiglia, delle responsabilità, dei genitori, degli orari, di essere un dipendente, dell’impotenza, delle malattie, degli sport estremi, delle dipendenze affettive.
Dott. Mauro Piccini
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Dic 13, 2018 | ALIMENTAZIONE E SALUTE, MEDICINA FUNZIONALE, OMEOPATIA
Lo studio “Gut microbes promote motor deficits in a mouse model of Parkinson’s disease” da poco pubblicato sulla rivista Cell ha approfondito e dato corpo alle tesi che vedono la possibile esistenza di un collegamento fra il microbioma intestinale e la malattia di Parkinson.
«Per la prima volta – spiega Sarkis Mazmanian, pioniere degli studi sul microbioma, tra gli autori dello studio e professore della California Institute of Technology – abbiamo scoperto un nesso biologico fra il microbioma intestinale e la malattia di Parkinson. Più genericamente, la ricerca rivela che una malattia neurodegenerativa può avere origine nell’intestino e non solo nel cervello, come si pensava in precedenza. La scoperta in pratica rappresenta un cambio di paradigma e apre per il futuro nuove possibilità di trattamento per i pazienti.».
Lo studio
I ricercatori hanno lavorato su topi geneticamente modificati per il Parkinson, dividendoli in due gruppi: il primo cresciuto in ambiente sterile (germ free), il secondo in condizioni normali. I topi cresciuti in ambiente sterile hanno mostrato minori deficit motori e un accumulo ridotto di proteine malformate rispetto ai topi cresciuti in ambiente normale: un trattamento a base diantibiotici su questi ultimi ha dato effetti simili a quelli riscontrati nei topi cresciuti in ambiente sterile. Viceversa, i topi germ free hanno registrato peggioramenti nei sintomi, se sottoposti a un trattamento a base di acidi grassi a catena corta o se sottoposti a trapianti fecali da parte di pazienti affetti da Parkinson. Esiste inoltre un fattore genetico nel potenziale sviluppo della patologia: i ricercatori hanno infatti usato un modello animale geneticamente modificato che replica i sintomi del Parkinson, e i topi non predisposti alla malattia, una volta sottoposti allo stesso trapianto fecale, non hanno sviluppato gli stessi deficit motori.
Questi risultati suggeriscono come in primis esista un’influenza negativa diretta da parte del microbioma intestinale nell’esacerbare i sintomi, con la creazione di un ambiente favorevole all’accumulo di proteine deformi, mentre dall’altra parte confermano che le terapie probiotiche o prebiotiche possono potenzialmente alleviare i sintomi della malattia.
La situazione in Italia
Anche in Italia si stanno realizzando ricerche su microbioma e malattie degenerative. «Oggi c’è molto interesse su questo aspetto ed anche noi abbiamo iniziato un progetto di studio del microbiota intestinale nei pazienti con Parkinson – racconta a Microbioma.it Fabrizio Stocchi, neurologo e direttore del Centro Parkinson dell’IRCCS San Raffaele Pisana – Vi sono indicazioni che il microbiota presenta alterazioni caratteristiche nei pazienti parkinsoniani e sappiamo che la proteina responsabile della morte cellulare nel cervello dei parkinsoniani, l’alfasinucleina, si trova anche nell’intestino di questi pazienti. L’alterazione del microbiota favorirebbe l’ingresso dell’alfasinucleina nel cervello iniziando il processo patologico che porta poi allo sviluppo della malattia. Lo studio riportato in questo articolo supporta questa ipotesi e incoraggia la prosecuzione della ricerca sul microbiota».
Il futuro della ricerca in questo campo: identificare batteri buoni e batteri cattivi per capire come agire
Se antibiotici e trapianti fecali sono ancora lontani dal diventare terapie praticabili nell’immediato, la prossima sfida per gli scienziati sarà proprio identificare le specie batteriche che contribuiscono all’insorgenza del Parkinson o a un aggravamento dei suoi sintomi e quali invece svolgono un’azione protettiva per i pazienti. «Una simile scoperta – conclude il Prof. Sarkis Mazmanian –potrebbe servire da marker diagnostico per la malattia, o persino fornire nuovi obiettivi per lo sviluppo di farmaci specifici. Come ogni altro processo di sviluppo di nuovi farmaci, portare questo lavoro dagli animali agli esseri umani richiederà anni. Ma questo è un primo passo avanti importante verso l’obiettivo a lungo termine: sfruttare le conoscenze che abbiamo acquisito e aiutare ad alleggerire il peso clinico, economico e sociale della malattia di Parkinson».
Dic 3, 2018 | MEDICINA FUNZIONALE
Succede anche con il clima: i batteri subsahariani arricchiscono l’ecosistema.
È in atto una migrazione sotterranea, impercettibile, ma tumultuosa e inarrestabile. Valica le frontiere, si muove a cavallo delle persone o degli eventi atmosferici. Sta scaricando sull’Europa – e sull’Italia che ne è l’avamposto – milioni di microbi, funghi, batteri provenienti dall’Africa. Non sembrano destinati a distruggerci. Anzi, rischiano di aiutarci a combattere uno dei nostri peggiori – e trascurati – mali: la perdita di biodiversità, nell’ambiente ma soprattutto nel nostro organismo.
Ci stiamo impoverendo. Sempre meno batteri, sempre meno vari. A Firenze, un team di ricercatori studia da anni i microrganismi del nostro corpo basandosi sui big data ricavati da sequenze di Dna. «L’industria alimentare e i suoi processi, la sanificazione, l’utilizzo massiccio di antibiotici negli allevamenti hanno contribuito a debellare molti agenti nocivi, ma hanno finito per estirparne anche di essenziali», rivela Duccio Cavalieri, professore al dipartimento di Biologia dell’Università di Firenze. «Un esempio sono i probiotici, che acquistiamo per reintrodurre nel nostro corpo elementi un tempo naturalmente presenti».
Aver eliminato funghi, batteri, microbi sta contribuendo all’esplosione di malattie auto immuni, infiammazioni, allergie. «Il sistema immunitario fin dalla nascita si abitua a riconoscere i microrganismi buoni da quelli che non lo sono», spiega Carlotta De Filippo, microbiologa all’Istituto di Biologia e biotecnologie agrarie del Cnr di Pisa. «Tuttavia, poiché la varietà microbica con cui entra in contatto è sempre minore, reagisce a ogni novità come se fosse patogena. E sviluppa infiammazioni».
Si spiega così il boom dei malanni del nuovo millennio. E perché molti – che fino a vent’anni fa insorgevano in persone adulte – attacchino sempre prima. Il numero di bambini soggetti ad allergie alimentari è schizzato del 20% in dieci anni: in Italia uno su venti – secondo l’Organizzazione mondiale dell’allergia – ne soffre. Tra 6 e 12 anni, il 7% ha dermatite atopica, il 15% di rinite allergica e il 9% di asma. Stesso discorso per le malattie auto immuni, come il morbo di Chron: il 25% dei nuovi casi ha meno di vent’anni. La diffusione delle infiammazioni croniche intestinali è raddoppiata nell’ultimo decennio, con 8 bimbi su 100 mila colpiti e un’età di insorgenza scesa a 10 anni. E ancora: artriti reumatoidi, coliti ulcerose, sclerosi multipla, diabete di tipo 1. «La correlazione tra la diffusione e precocità di questi mali e la riduzione della varietà microbica è assodata», assicura De Filippo.
Siamo diventati fragili. Meno ricchi. Una ricchezza di cui l’Africa, da cui moltitudini cercano di fuggire, abbonda. La grande migrazione, tra i tanti effetti, potrebbe celarne uno finora poco indagato: milioni di batteri stanno invadendo l’Italia. Nelle popolazioni africane si annida una grande quantità (e varietà) di microrganismi che il nostro mondo ha perso. I ricercatori fiorentini l’hanno scoperto mettendo a confronto alcuni bambini toscani con coetanei del villaggio Boulpon, nel Burkina Faso. «Hanno il triplo di acidi grassi a catena corta, antinfiammatori naturali», racconta Cavalieri. E soprattutto hanno concentrazioni di patogeni inferiori: l’Escherichia (responsabile di cistiti, infiammazioni alle vie urinarie) è presente in misura quattro volte superiore nei bambini italiani, la Salmonella otto volte tanto, la Shigella (dannosa per l’intestino) sette volte, la Klebsiella (agente delle infiammazioni alla vie aeree, come la polmonite) quasi quindici. La differenza sta nei nutrimenti: fibre, amido non raffinato e altre fonti vegetali, pochi grassi animali, ma soprattutto niente industria alimentare. «I bambini africani vivono in un ambiente fortemente contaminato», ragiona il professor Cavalieri. «Eppure i principali patogeni umani si ritrovano in quantità decisamente minori, perché hanno una ricchezza microbica che li difende. Noi non ce l’abbiamo più».
Le popolazioni africane potrebbero aiutarci a recuperarne una parte. Nell’ecosistema sta già accadendo qualcosa di simile. Nel 2014 una nevicata ha riversato sulle Dolomiti grandi quantità di sabbia del Sahara. Non era la prima volta ma quell’anno il gelo ha cristallizzato per mesi l’ambiente. La sabbia conteneva milioni di funghi e batteri: intere famiglie si sono trasferite, oltrepassando il deserto e il Mediterraneo, per colonizzare le Alpi. Il disgelo le ha riversate nell’arco di poche ore. Poteva essere una catastrofe. Invece no. Un gruppo di ricercatori (Cnr, Fondazione Edmund Mach, atenei di Firenze, Innsbruck e Venezia) ha prelevato campioni dal suolo dolomitico e li ha analizzati per tre anni. Per scoprirne l’origine, hanno ricostruito le traiettorie atmosferiche e il Dna dei microrganismi ritrovati, confrontandoli con dati campionati in tutto il mondo.Il risultato è sorprendente: i microrganismi sub-sahariani si sono adattati all’ambiente alpino e, anziché stravolgerlo, lo stanno arricchendo. «Questi eventi sono la diretta conseguenza dei cambiamenti climatici, saranno sempre più frequenti», spiegano i coordinatori del team, Cavalieri, Tobias Weil e Franco Miglietta. «Andranno monitorati nel tempo ma per ora possiamo dire che gli effetti positivi sono prevalenti rispetto a quelli problematici».
Lo stesso – fatte le dovute proporzioni – potrebbe accadere agli esseri umani. In fondo anche noi siamo un ecosistema: in una persona di 70 chili, i microrganismi ne valgono almeno 2. I nostri sono sempre più standard.
Andrea Rossi
pubblicato su LASTAMPA
https://www.lastampa.it/2017/05/10/italia/allergie-e-malattie-autoimmuni-cos-i-microbi-degli-africani-rafforzano-il-nostro-organismo-sEKMmqzAkx1Mvc3zuUTpzM/pagina.html
Nov 8, 2018 | MEDICINA FUNZIONALE, OMEOPATIA
L’ intestino umano è rivestito da oltre 100 milioni di cellule nervose: è praticamente un cervello a sé stante. E in effetti, l’intestino parla al cervello, rilasciando ormoni nel flusso sanguigno che, nel corso di circa 10 minuti, ci dicono “quanto sia affamato o che non avremmo dovuto mangiare un’intera pizza”. Ma un nuovo studio rivela che l’intestino ha una connessione molto più diretta con il cervello attraverso un circuito neurale che gli consente di trasmettere segnali in pochi secondi.
Queste scoperte potrebbero portare a nuovi trattamenti per l’obesità, i disturbi alimentari e persino la depressione e l’autismo, tutti fattori collegati a un intestino malfunzionante.
Lo studio rivela “una nuova serie di percorsi che utilizzano le cellule intestinali per comunicare rapidamente con … il tronco cerebrale”, afferma Daniel Drucker, uno scienziato clinico che studia i disordini intestinali presso il Lunenfeld-Tanenbaum Research Institute di Toronto, in Canada, che non era coinvolto nel lavoro. Sebbene restino molte domande prima che le implicazioni cliniche diventino chiare, dice il ricercatore: “Questo è un nuovo fantastico pezzo del puzzle”.
Nel 2010, il neuroscienziato Diego Bohórquez della Duke University di Durham, nella Carolina del Nord, ha fatto una scoperta sorprendente guardando attraverso il suo microscopio elettronico. Le cellule enteroendocrine, che fissano il rivestimento dell’intestino e producono ormoni che stimolano la digestione e sopprimono la fame, hanno protrusioni che assomigliano alle sinapsi utilizzate dai neuroni per comunicare tra loro. Bohórquez sapeva che le cellule enteroendocrine potevano inviare messaggi ormonali al sistema nervoso centrale, ma si chiedeva anche se potevano “parlare” al cervello usando segnali elettrici, come fanno i neuroni. Se è così, le cellule endocrine dovrebbero inviare i segnali attraverso il nervo vago, che viaggia dall’intestino al tronco cerebrale.
I ricercatori hanno iniettato un virus della rabbia fluorescente, che è stato trasmesso attraverso sinapsi neuronali, nei topi e hanno aspettato che le cellule enteroendocrine e i loro partner si accendessero. ” Questi partner si sono rivelati essere neuroni vagali“, riferiscono i ricercatori su Science.
In una capsula di Petri, le cellule enteroendocrine raggiungevano i neuroni vagali e formavano connessioni sinaptiche l’una con l’altra. Le cellule emettevano persino glutammato, un neurotrasmettitore coinvolto nell’odore e nel gusto, che i neuroni vagali raccoglievano nell’arco di 100 millisecondi, più velocemente di un battito di ciglia.
“La velocità delle connessioni sinaptiche delle cellule enteroendocrine è molto più veloce di quanto gli ormoni possano viaggiare dall’intestino al cervello attraverso il flusso sanguigno”, dice Bohórquez. “La lentezza degli ormoni può essere responsabile dei fallimenti di molti soppressori dell’appetito. Il passo successivo è studiare se questa segnalazione gut-brain fornisce al cervello informazioni importanti sui nutrienti e sul valore calorico del cibo che mangiamo”.
Un altro studio, pubblicato sulla rivista Cell, rivela come le cellule sensoriali dell’intestino ci possano beneficiare ulteriormente. I ricercatori hanno utilizzato i laser per stimolare i neuroni sensoriali che innervano l’intestino nei topi, producendo sensazioni gratificanti che i roditori hanno lavorato duramente per ripetere. La stimolazione laser ha anche aumentato i livelli di un neurotrasmettitore stimolante l’umore chiamato dopamina nel cervello dei roditori.
“Combinate, le due ricerche aiutano a spiegare perché stimolare il nervo vago con la corrente elettrica può trattare una grave depressione nelle persone”, dice Ivan de Araujo, un neuroscienziato della Icahn School of Medicine del Monte Sinai a New York, che ha guidato lo studio. I risultati possono anche spiegare perché, a livello base, mangiare ci fa sentire bene. “Anche se questi neuroni sono al di fuori del cervello, si adattano perfettamente alla definizione di neuroni di ricompensa “che guidano la motivazione e aumentano il piacere”, dice il ricercatore.
Dott. Mauro Piccini
https://www.medimagazine.it/l-intestino-e-collegato-direttamente-al-cervello-da-un-circuito-neuronale-appena-scoperto/
Fonte: Science
Nov 8, 2018 | MEDICINA FUNZIONALE, OMEOPATIA, PILLOLE DI RIFLESSIONE
Carattere: dominante ma prepotente
Emozione primaria: delusione
Conflitto: di svalutazione
Diritto negato: di essere autonomo
Paura: dei legami, di legarsi sentimentalmente
Illusione di sé: posso ottenere tutto ciò che voglio, sono il migliore
Comportamento: manipolatore e possessivo
Energia fisica: medio-alta; energia mentale: bassa (-ecto, +meso, -endo)
Colore utile: verde, stabilità e pazienza, “lascia la libertà alla vita”
Le tre fasi della vita in un batter d’occhio: nel passato sono stato tradito, vivo il presente in virtù del futuro per non essere deluso, ma ho paura del futuro perché potrei sentirmi legato.
Un’anima tradita si sente fallita perché non è stata scelta come priorità irrinunciabile, non si sente rispettata. Tende a negare i propri sentimenti, è come se l’io diventasse ostile al corpo e alle sue sensazioni, in quanto investe tutta la sua energia vitale sulla propria immagine, sull’esteriorità materiale. Il soggetto abbandonato prova delusione perché già da piccolo papà o mamma hanno preferito un altro a lui, e adesso rivedersi secondo non è accettabile. L’anima tradita si immola come il Cristo. Il tradito si sente perfetto e leale e non merita un tale affronto, l’essere stato rinnegato distrugge il suo ego. Proverà delusione ogni volta che le sue aspettative non verranno soddisfatte, ma in realtà è lui che si crea aspettative senza che nessuno gli abbia mai garantito fedeltà e vicinanza a vita. Un amico, un partner, un figlio o un collega hanno il dovere di rispettare i suoi desideri e le sue pretese, e quando ciò non avviene il soggetto grida al tradimento. Questa ferita spesso nasce dal complesso di Edipo: “la mamma che mi diceva ti voglio bene, sei il mio ometto preferito all’improvviso ha preferito papà o il fratellino”, oppure “papà è mio e mi diceva che ero la sua principessa, e allora perché gioca con la sorellina e va a letto con la mamma, invece di tenere me tra le sue braccia?”
Il carattere sarà dominante e prepotente. La ferita ha reso il soggetto tradito altamente scettico e prepotente, non ha nessuna voglia di passare in secondo piano e di essere deluso nuovamente, pertanto tende a controllare tutto e tutti attraverso il dominio fisico o mentale; deve sapere ciò che fanno gli altri affinché nulla possa sfuggire al suo controllo, neanche le sue emozioni possono essere espresse, riesce a controllare anche i suoi sentimenti per non deludere se stesso. Dominerà gli altri attraverso la forza fisica. La palestra e i muscoli, il comando, un tono di voce alto gli permetteranno di tenere testa alla materia umana. La conoscenza e il sapere gli permetteranno di tenere testa alla mente umana. Non accetta sconfitte e per questo eviterà di scontrarsi con chi ritiene superiore, sceglierà i suoi compagni di viaggio quando sarà certo che non comportano una perdita materiale o, soprattutto, sentimentale. Tiene a sé le persone che ama con il controllo, li domina a volte con le minacce affinché non vadano via preferendo altri; sarà sempre disponibile e presente a soddisfare il compagno, ma solo per mostrare che lui è il migliore e non certo per il bene altrui. Educherà i figli con la convinzione che ordine e disciplina servano a rafforzarne il carattere: non esiste il “vuoi” ma solo il “devi”. I sentimenti, le emozioni in tutte le loro manifestazioni lo terrorizzano. Manifestare i propri sentimenti significa aprirsi agli altri, ma questi sentimenti potrebbero, un giorno, essere usati contro di lui.
La ferita del tradimento conduce l’essere umano a diventare e a sentirsi superiore a tutti: in ogni occasione di vita deve essere il migliore per evitare di essere rinnegato; diventa leader perché solo un capo ha rispetto ed è temuto, e guai a tradire chi ha il comando. L’essenza di ogni sua azione è la negazione dei sentimenti, delle emozioni e delle sensazioni, anche a livello intimo e sessuale, per non mostrare debolezze. L’immagine che il tradito crea di se stesso deve essere rispettata e onorata da tutti. Ogni piacere di vita è basato sulla conquista, sulla quantità e non sulla qualità dei rapporti umani; meglio mille conoscenze che pochi amici sinceri. Il soggetto che ha la ferita del tradimento è un narcisista, seducente e accattivante che si vanta delle sue vittorie e del suo aspetto esteriore, nascondendo la sua vera natura, l’ipersensibilità.
L’emozione innata in chi cerca di sanare la ferita del tradimento è la delusione. Si tratta di uno stato emotivo-affettivo che insorge quando interviene un evento inaspettato o contrario all’aspettativa. Tale emozione causa un improvviso cambiamento della direzione dell’attività che si sta portando avanti nella vita come obiettivo primario. Chi si sente tradito non accetta il rifiuto perché solo lui può avere il potere di rifiutare chi l’ha tradito, è un esaltato e non ammette i propri errori, se li commette si sentirà deluso di se stesso, avrà perso una fetta di autostima e andrà su tutte le furie o in un isolamento autopunitivo. Non è ammissibile che uno come lui possa essere scoperto e messo in ridicolo se commette errori, vive in continua tensione ed è facilmente irritabile. Ogni volta che nella vita ci si sentirà rinnegati o traditi si proverà un profondo senso di rabbia e vendetta.
La paura esistenziale è quella dei legami, di innamorarsi, di mostrare i propri sentimenti, di ammalarsi, di perdere l’immagine, di impazzire, di perdere il controllo, perdere il lavoro, della vecchiaia, di perdere la fiducia degli amici, dei colleghi, della famiglia, di scoprire il passato.
Dott. Mauro Piccini
da https://embriologiaemozionale.vpsite.it/bussola-costituzionale