Mar 8, 2021 | ALIMENTAZIONE E SALUTE, MEDICINA FUNZIONALE, OMEOPATIA
Nella maggior parte delle visite effettuate presso gli ambulatori il medico concentra la sua attenzione su dati clinici conclamati, caratterizzati da una sintomatologia chiaramente riconoscibile. Altri sintomi, che potrebbero essere definiti vaghi, quali stanchezza cronica, disturbi del sonno o dell’appetito, irritabilità del colon o stipsi, disturbi del tono e dell’umore, sindromi dolorose aspecifiche ecc, sono invece, spesso sottovalutati.
Questi sintomi restano in gran parte non spiegati, non vengono cioè ricondotti alla precisa causa, patologia o disturbo.
Nella letteratura anglosassone sono identificati con l’acronomo ” MUS “, Medically Unexplained Symptoms.
L’insorgenza dei MUS nei pazienti soprattutto della medicina generale va facendosi sempre più frequente, ed in diverse occasioni sono state sottolineate le difficoltà insite nel trattamento di questi sintomi, sia dal punto di vista diagnostico che, conseguentemente, terapeutico.
Diviene quindi rilevante sottolineare il rischio che può celarsi dietro ad una diagnosi di natura psicosociale che, determinata dall’oggettiva difficoltà dell’indagine medica, può far si che vengano trascurate delle patologie nascoste. La maggior parte delle pubblicazioni sull’argomento descrive una situazione la cui complessità ha inizio già dal colloquio con il paziente, che difficilmente riesce a comunicare in modo preciso i suoi stessi disagi e sintomi.
IL RUOLO DELL’ASSE HPA E DELL’INFIAMMAZIONE CRONICA
Il ritmo giornaliero della secrezione del cortisolo rappresenta per il corpo un importante fattore endogeno di sincronismo, e dovrebbe essere armonizzato con il contingente stato di ricettività delle cellule e con le esigenze dell’organismo. In un soggetto sano, infatti, la secrezione di CRH (ipotalamo) ed ACTH (ipofisi) sono particolarmente sensibili all’abbassamento notturno del livello di cortisolo, in modo da indurre all’acrofase (momento della massima concentrazione) del ritmo circadiano del cortisolo circa mezz’ora dopo il risveglio, promuovendo la risposta e l’adattamento dell’organismo allo stress; l’aumento del livello del cortisolo, recepito dall’ipofisi, provoca a sua volta la progressiva diminuzione della secrezione di ACTH e quindi il conseguente abbassamento dell’attività delle ghiandole surrenali e della secrezione del cortisolo.
Un’alterazione del ritmo circadiano dei glucocorticoidi però, ed in particolare un anomalo appiattimento del livello del cortisolo (quando cioè la sua secrezione risulti persistente nel tempo) legato ad una condizione di stress cronico dell’asse HPA si correla all’insorgenza di molte forme patologiche.
Gli studi sulle relazioni tra diverse condizioni patologiche e gli squilibri dell’asse HPA sono numerosi ed hanno riscontrato evidenti legami tra i livelli anomali di glucocorticoidi e patologie molto disparate, quali depressione, ansia ed attacchi di panico, deficienza dell’ippocampo e relativa diminuzione delle capacità mnemoniche, disturbi del sonno, sindrome da affaticamento cronico, fibromialgie e patologie autoimmuni, colon irritabile, ipertensione, disturbi alimentari ed obesità, forme reumatiche ecc.
L’attivazione persistente dell’asse HPA può a sua volta essere causata dalla cronicizzazione di processi infiammatori. Per riportare l’asse HPA alla condizione fisiologica è necessario regolare l’equilibrio nei distretti soggetti ad infiammazione cronica, al fine di regolarizzare la secrezione di glucocorticoidi e poterne ristabilire i ritmi circadiani fisiologici.
Abstract: Biotecna
Dott. Mauro Piccini
Feb 12, 2021 | AGOPUNTURA, ALIMENTAZIONE E SALUTE, MEDICINA FUNZIONALE, OMEOPATIA
Alcuni ricercatori hanno identificato il meccanismo biologico che spiega perché alcune persone provano dolore addominale quando mangiano certi cibi. La scoperta apre la strada a un trattamento più efficace per la sindrome dell’intestino irritabile e per altre intolleranze alimentari. Lo studio, condotto su topi ed esseri umani, è stato pubblicato da Nature.
Fino al 20% della popolazione mondiale soffre della sindrome dell’intestino irritabile (Ibs), che provoca dolore allo stomaco o grave disagio dopo aver mangiato. Questo influenza la loro qualità di vita.
Ora studi clinici e di laboratorio hanno rivelato un meccanismo che collega alcuni alimenti con l’attivazione di cellule (chiamate mastociti) che rilasciano istamina, e il conseguente dolore e disagio. Un lavoro precedente ha dimostrato che il blocco dell’istamina, una componente importante del sistema immunitario, migliora la condizione delle persone con Ibs.
In un intestino sano, il sistema immunitario non reagisce agli alimenti, quindi il primo passo è stato quello di scoprire cosa potrebbe causare la rottura di questa tolleranza. Poiché le persone con Ibs spesso riferiscono che i loro sintomi sono iniziati dopo un’infezione gastrointestinale, i ricercatori hanno ipotizzato che un’infezione mentre un particolare cibo è presente nell’intestino potrebbe sensibilizzare il sistema immunitario verso quel cibo.
Gli esperti hanno quindi infettato i topi con un virus intestinale, e allo stesso tempo li hanno nutriti con l’ovalbumina, una proteina che si trova nell’albume dell’uovo e che è comunemente usata negli esperimenti come antigene alimentare modello. Una volta eliminata l’infezione, ai topi è stata data di nuovo l’ovalbumina, per vedere se il loro sistema immunitario si era sensibilizzato ad essa. I risultati sono stati affermativi: l’ovalbumina da sola ha provocato l’attivazione dei mastociti, il rilascio di istamina e l’intolleranza digestiva con aumento del dolore addominale. Questo non succedeva nei topi che non erano stati infettati dal virus e avevano ricevuto l’ovoalbumina.
I ricercatori sono passati all’uomo e hanno analizzato se le persone con Ibs reagissero allo stesso modo. Quando gli antigeni alimentari associati con il colon irritabile (glutine, grano, soia e latte di mucca) sono stati iniettati nella parete intestinale di 12 pazienti Ibs hanno prodotto reazioni immunitarie localizzate simili a quelle osservate nei topi. Nessuna reazione è invece stata registrata nei volontari sani.
Il numero relativamente piccolo di persone coinvolte fa sì che questa scoperta abbia bisogno di ulteriori conferme, ma appare significativa se considerata insieme a un precedente studio clinico che mostra un miglioramento durante il trattamento di pazienti con Ibs con antistaminici poiché conferma che il meccanismo ha rilevanza clinica.
In ogni caso, secondo gli autori del lavoro, conoscere il meccanismo che porta all’attivazione dei mastociti è cruciale e porterà a nuove terapie per questi pazienti.
Fonte: Nature
Mediante l’approccio con la Medicina Funzionale abbiamo la possibilità di valutare i fattori di carico che innescano il processo infiammatorio e ristabilire l’equilibrio necessario attraverso un’ alimentazione senza cibi disturbanti e una terapia di recupero funzionale del sistema.
Dott. Mauro Piccini
Gen 25, 2021 | AGOPUNTURA, ALIMENTAZIONE E SALUTE, MEDICINA FUNZIONALE, MEDICINA QUANTISTICA, OMEOPATIA
I pazienti affetti da depressione sono caratterizzati da alterazioni del microbiota intestinale che potrebbero quindi facilitare la diagnosi di questa patologia.
Il microbiota intestinale è stato associato a una pletora di disturbi, incluse alcune patologie che coinvolgono il cervello. Di recente, un gruppo di ricercatori ha scoperto che i pazienti con disturbo depressivo maggiore (MDD) hanno una “firma” microbica diversa rispetto alle persone sane.
I risultati, pubblicati su Science Advances, suggeriscono che i pazienti affetti da depressione sono caratterizzati da alterazioni del microbiota intestinale che potrebbero facilitare la diagnosi di questa patologia.
La depressione maggiore è un disturbo dell’umore caratterizzato da sentimenti persistenti di tristezza o mancanza di interesse per gli stimoli della vita ordinaria. Studi precedenti hanno scoperto che le persone con MDD hanno alterazioni del microbiota intestinale, ma si sa ancora poco su quali siano i microbi intestinali che differiscono tra le persone sane e i pazienti con questa patologia.
Per tracciare un quadro più preciso dei microrganismi presenti nell’intestino degli individui con MDD, un team di ricercatori guidato da Jian Yang della Capital Medical University e Peng Zheng della Chongqing Medical University, in Cina, ha analizzato 311 campioni fecali raccolti da 156 persone con MDD e 155 individui sani.
La depressione nasce nell’intestino?
I ricercatori hanno identificato 47 specie batteriche la cui abbondanza differisce significativamente nelle persone con depressione maggiore rispetto agli individui sani. In particolare, nei pazienti con MDD sono stati riscontrati livelli più alti di 18 specie batteriche, inclusi microbi appartenenti al genere Bacteroides, e livelli più bassi di 29 specie, tra cui Eubacterium e Blautia.
Una maggiore abbondanza di Bacteroides e livelli ridotti di Blautia nel microbiota intestinale potrebbero spiegare perché le persone depresse tendono ad avere livelli elevati di citochine e dell’infiammazione associata rispetto alla popolazione generale.
Sebbene i ricercatori non abbiano trovato differenze significative tra la composizione virale intestinale delle persone con depressione maggiore e controlli sani, sono stati identificati tre batteriofagi, ovvero virus che infettano solo i batteri, che sono risultati meno abbondanti negli individui con MDD.
Metaboliti intestinali possibili biomarker della depressione
Successivamente, il team di ricercatori ha analizzato le molecole prodotte dal microbiota intestinale dei due gruppi di partecipanti allo studio; sono stati così identificati 16 metaboliti più abbondanti e 34 meno abbondanti nelle persone con depressione rispetto ai controlli sani.
La maggior parte di queste molecole è risultata coinvolta nel metabolismo di molecole tra cui l’acido gamma-aminobutirrico (GABA), il principale neurotrasmettitore inibitorio del cervello umano.
I ricercatori hanno quindi sviluppato un biomarker costituito da due specie batteriche, due batteriofagi e due metaboliti. Utilizzando questa “firma” microbica, i ricercatori sono stati in grado di distinguere le persone con depressione maggiore dai controlli sani in un gruppo di 75 individui.
Un biomarcatore simile potrebbe essere quindi utilizzato, nell’ambito dell’indagine diagnostica, per testare la presenza di alcuni elementi all’interno del microbiota intestinale.
Conclusioni
I risultati suggeriscono che la depressione maggiore è caratterizzata da alterazioni del microbiota intestinale che possono facilitare la diagnosi di questo disturbo mentale.
Da:https://microbioma.it/gastroenterologia/nel-microbiota-intestinale-la-firma-della-depressione/
Dott. Mauro Piccini
Gen 7, 2021 | AGOPUNTURA, ALIMENTAZIONE E SALUTE, MEDICINA FUNZIONALE, OMEOPATIA, PILLOLE DI RIFLESSIONE
Il dolore che si manifesta sul piano fisico è sempre il riflesso di un dolore morale che non ha trovato altro modo per esprimersi. Ed è spesso per evitare si essere sommersa che la nostra coscienza si mette al riparo da questo dolore morale, deviandolo almeno in parte nel corpo. L’emozione, a volte, è tale da poter affondare l’immagine che abbiamo di noi, per la quale proviamo a volte un tale attaccamento, che come se non esistesse altro nella vita.
L’immagine del capitano della nave che non l’abbandona nel naufragio evoca la necessità di “mollare” secondo la quale basterebbe coltivare il distacco, lasciare andare la collera, le emozioni e perdonare, e così via.
L’idea non è sbagliata, ma cos’è che bisogna mollare? Non serve a nulla al malato che soffre di sciatica sentirsi dire che dovrebbe lasciare andare la sua collera.
Le cose non sono così semplici, perché il tutto avviene a nostra insaputa, e la nostra difficoltà non sta tanto nel mollare la presa, quanto nel riconoscere. Mollare la presa deriva dalla presa di coscienza e questo in modo del tutto naturale ed indolore. La difficoltà non sta tanto nel prendere le distanze, quanto nel riconoscere ciò che sta succedendo.
Ecco perché ho parlato di punto cieco a proposito dello stress. Ci salva il fatto di avere due occhi e dunque la capacità di vedere la situazione che ci ha presi in trappola da una prospettiva diversa.
L’essere umano è causa di sofferenza e di danni intorno a sé, in quanto essere imperfetto. Ci è facile ritenerci vittime, senza essere sempre consapevoli dei guai che noi stessi causiamo; accettare l’imperfezione umana è l’inizio del perdono autentico, che si presenta come una comprensione profonda e uno slancio del cuore.
Altra forma di perdono, che desidero menzionare, non è tanto un perdono ma quanto piuttosto un riconoscimento, che avviene quando prendiamo coscienza della nostra parte di responsabilità in quanto ci accade. In situazioni conflittuali, accade raramente che il torto stia tutto da una parte sola, e se da un lato siamo innocenti, dall’altro abbiamo le nostre responsabilità. La questione vera, quando tutto questo ci fa ammalare, è capire cosa quel conflitto sottolinea dentro di noi e perché questo ci fa star male. Guardare la situazione con onestà richiede un grande distacco da se stessi, il che è anche l’inizio della guarigione.
Uno dei principali ostacoli alla nostra libertà, come anche alla nostra comprensione, è il diniego. Attraverso la malattia cerchiamo di preservarci e talvolta questa proiezione è talmente efficace che non filtra assolutamente nulla sul piano conscio.
La libertà non consiste nel liberarsi delle persone che ci stanno intorno o dei nostri obblighi, perché non vuol dire necessariamente “cambiare vita”; si tratta invece di liberarci di certe illusioni che hanno intrappolato per troppo tempo la nostra coscienza. Non possiamo cambiare il mondo esterno solo perché così decretiamo, ma l’esterno muta quando, dentro, siamo liberi.
Proprio come lo stress, la malattia che combattiamo è una medaglia a due facce: da un lato è nemica, ma dall’altro tenta di guarirci.
La malattia cerca di guarirci dall’emozione che l’ha generata.
Gestiamo le emozioni complesse attraverso il corpo e non ce nulla di male nel farlo. La malattia è un evento naturale, di cui non bisogna colpevolizzarsi, proprio come non dobbiamo colpevolizzarci per non riuscire a guarire dopo aver letto molti libri sull’argomento.
La malattia fa parte della condizione umana e deve essere una fase da accettare come tale.
Allora l’incontro con ciò che può guarirci avviene solo per caso (e come diceva Einstein: “il caso è la maschera che Dio assume quando non vuole farsi riconoscere”) quando siamo pronti e si prepara attraverso una serie di tappe silenziose, per mezzo delle quali la malattia cerca di liberarci dalla nostra sofferenza.
Dott. Mauro Piccini
Dic 23, 2020 | AGOPUNTURA, ALIMENTAZIONE E SALUTE, MEDICINA FUNZIONALE, OMEOPATIA, PILLOLE DI RIFLESSIONE
Come è possibile immaginare che attraverso la malattia e la sofferenza stiamo preservando qualcosa?
Quello che diciamo attraverso la malattia è che abbiamo ragione di aver male.
Con la malattia, in qualche modo noi ci giustifichiamo, giustifichiamo la fondatezza dei sentimenti che proviamo, mostrando che non sono una visione mentale bensì una realtà oggettiva.
Con la malattia abbiamo le prove della nostra sofferenza, ma di tutto questo non siamo coscienti e il prezzo da pagare è alto.
Prendiamo a testimone il corpo, attraverso il quale anche le persone che ci stanno accanto diventano testimoni. Se dite ad una persona che soffre, che il suo è un disturbo psicologico, probabilmente vi ribatterà che a lei fa male e che quel male è reale. E anche aggiungerà anche che voi, che avete la fortuna di star bene, non potete capire che cosa sta passando.
Siamo malati e bisogna che i nostri cari vi si adattino; facendo della nostra sofferenza morale una realtà fisica, togliamo loro la possibilità di ignorarla o di prendere le distanze rispetto a questa realtà. Ma , in realtà, siamo noi i primi a soffrirne e l’impotenza delle persone care nel darci sollievo ci lascia da soli.
Solitamente si incrimina lo stress come causa iniziale della malattia.
Tuttavia la nostra vita è piena di preoccupazioni, delusioni, rabbie. Gli stress con cui ci confrontiamo sono molti e permanenti.
Ma allora ogni volta ci ammaliamo? Certo che no. Ci vuole un altro fattore perché lo stress ci faccia ammalare. E questo non dipende dall’intensità dello stress, ma da altre due cose: il luogo in cui lo stress si manifesta e la complessità dell’emozione che proviamo.
Quella che per uno è una situazione drammatica, per una altro è solo un’esperienza senza rilevanza.
Stress è un termine inglese che significa “ sottolineare” , “ mettere l’accento su qualcosa”.
Immaginate l’esempio della quercia e del giunco.
Si scatena una tempesta, il giunco si piega e si adatta, mentre la quercia è troppo rigida e finisce per spezzarsi. Ciò che il vento “ sottolinea” è la rigidità della quercia; ma il vento di per sé è neutro, e infatti per il giunco è solo un gioco. Immaginate, ora, un uccello posato sul ramo della quercia e poi sul giunco. La quercia è rigida, ma è solida e capace di sostenere chi in essa trova rifugio, si fa carico di questo peso, mentre il giunco non ne è affatto capace. Tanto per la quercia come per il giunco, lo stress ha delle conseguenze soltanto quando “ sottolinea” un difetto della struttura; difetto che come vedete è come una buona qualità che è presente in quantità eccessiva.
Per noi , dunque, non è tanto lo stress, in sé e per sé, ad essere dannoso, ma ciò che lo stress sottolinea.
Non è l’intensità dello stress a spiegare la malattia. Vi sono persone che vivono situazioni difficilissime senza per questo ammalarsi, ma poi si ammalano in seguito ad uno stress la cui intensità ci sembra decisamente inferiore. Questo ha a che fare con la nostra struttura. Il corpo del bambino piccolo è morbido ed elastico ma, si addensa con l’età tanto per tenerci in piedi quanto per affrontare la vita. Accade qualcosa di simile anche sul piano psicologico. Ci “addensiamo” ogni tanto prendiamo dei colpi che ci induriscono e piano piano ci cristallizzeremo. Non sono le nostre zone flessibili ad essere problematiche, ma le zone cristallizzate che presumibilmente reagiranno malamente agli urti.
La vita ci induce a lavorare proprio sui punti della cristallizzazione, per ammorbidirli.
E’ raro che uno stress grave si presenti senza essere stato preceduto da qualche messaggio che abbiamo ignorato.
Ciascuno di noi ha un suo “punto cieco”, una zona di sé, del proprio atteggiamento, nel quale inciampa ogni volta, come se fosse incapace di vederla.
La nozione di “punto cieco” si riferisce al punto cieco della nostra retina, e il paragone non è trascurabile. Infatti, quando guardiamo il mondo con un occhio solo, quella piccola parte di esso che viene proiettata sulla retina non viene percepita; per fortuna abbiamo due occhi e la vista dell’uno compensa il punto cieco dell’altro. In questa idea si nasconde una chiave per la nostra guarigione, perché ciò che l’altro occhio ci dà, è la possibilità di guardare da un punto di vista diverso la realtà in cui incespichiamo.
L’emozione che proviamo è come un groviglio di sentimenti contraddittori. Se siamo in collera con una persona che ci è indifferente, si tratta di un sentimento sgradevole ma abbastanza semplice da gestire; questa seccatura ci irriterà ma non ci toccherà nel profondo. Se però la situazione ci tocca su di un punto involontariamente ambiguo o contradditorio allora le cose cambiano.
Questa contraddizione, di solito, è nascosta.
Ecco perché attraverso la malattia cerchiamo di dirci le cose, ma senza dircele chiaro e tondo. Resta una parte di equivoco, una zona nascosta.
Scoprire che il nostro mal di gola è il risultato della collera non è tanto difficile, ma quel che è difficile è svelare quale sentimento si nasconde dietro a quella collera.
Dott. Mauro Piccini
Dic 3, 2020 | AGOPUNTURA, ALIMENTAZIONE E SALUTE, MEDICINA FUNZIONALE, OMEOPATIA, PILLOLE DI RIFLESSIONE
Attraverso la malattia parliamo a noi stessi e prendiamo il nostro corpo come un testimone: la manifestazione, la lesione e il dolore sono il riflesso preciso delle emozioni che stiamo vivendo.
I sentimenti si trasformano in sensazioni e questo ci irrita, ci da fastidio; ma che cosa ci irrita e ci rode e a che cosa quel dolore è sordo?
Il medico ci ascolta e scrive “gastrite”; su nostra richiesta “classifica” ciò che proviamo e questo ci rassicura, diventa qualcosa di noto e misurabile.
Ma così facendo, quello che cercavamo di comunicarci attraverso questo sintomo ha buone possibilità di essere accantonato in cantina.
La diagnosi è un atto necessario ma è un arma a doppio taglio. Confidare la malattia al nostro medico è logico perché ha il compito di aiutarci e di curarci, ma se gli deleghiamo la responsabilità di ciò che proviamo, se la malattia diventa una faccenda solo del medico che ne sarà dell’interrogativo, che attraverso di essa rivolgiamo a noi stessi?
Quindi perdiamo il senso di quello che cerchiamo di comunicare a noi stessi. Dato che ci parliamo usando il corpo come metafora, ecco che ciò che tentiamo di comunicare diventa incomprensibile. Soffriamo senza sapere il perché, come se ci mancasse la chiave di comprendere il messaggio, ascoltare la propria malattia come un linguaggio interiore è un primo passo verso la guarigione
.
La malattia è un modo di comunicare sia con se stessi che con gli altri perché, consapevolmente o meno, in tal modo esprimiamo ed esterniamo il nostro mal-essere.
La metafora è un “procedimento del linguaggio che consiste nel modificare il senso attraverso una sostituzione analogica”.
La metafora è il modo più semplice e diretto per esprimere qualcosa che è difficile da definire. E molto spesso ci serviamo di uno dei nostri organi come metafora per comunicare con noi stessi e dirci qualcosa di figurato.
Le impressioni fisiche che proviamo sono un modo di descrivere ciò che sentiamo. Anche il punto del corpo in cui si manifesta il nostro malessere non è casuale. In qualche modo, inconsciamente, scegliamo l’organo che la malattia colpisce. La scelta è tutt’altro che casuale, perché corrisponde alla nostra percezione inconscia di quell’organo o della sua funzione. Ciò a cui serve l’organo, viene usato come metafora per esprimere il disagio.
La malattia è un modo curioso di dirci le cose, perché è come se ci parlassimo a mezzi termini. Quando parliamo del “capo” di un azienda è una metafora perché l’azienda non ha un “capo” più di quanto abbia “i piedi”; ma ognuno di noi sa che la testa, “IL CAPO” è la parte che dirige, quindi tutti capiscono cosa vuol dire.
Tutt’altro può essere che un mal di capo rifletta il nostro dolore nel non potere dirigere a nostro piacimento certe situazioni. In questo modo, attraverso la malattia, ci capiamo. Contemporaneamente, però non capiamo che cosa ci sta succedendo, perché mai ci siamo ammalati, né a cosa serva questa sofferenza dalla quale aspiriamo solo a liberarci velocemente.
Sul fatto che certe malattie siano psicosomatiche tutti sono d’accordo.
Ma le altre malattie che siano infettive o di origine meccanica (ernia del disco) o tumorali sono anch’esse un modo di parlare a noi stessi? La causa della malattia ha due facce. Non ha senso dire quale sia quella giusta, perché lo sono entrambe: nessuno nega la responsabilità di un microrganismo o di un’ernia.
E’ difficile vedere in contemporanea il lato testa e croce della stessa medaglia; i nostri occhi ce lo impediscono e la mente, come gli occhi, ha bisogno di prendere in considerazione i due aspetti separatamente.
Non scordate l’immagine delle due facce della medaglia. Queste due facce sono giuste entrambe e quando si parlerà della dimensione psicologica di una sciatica, non sarà per negare l’esistenza di un’ernia discale e viceversa.
Ciò che vale per la malattia può valere anche per gli incidenti, i traumi, le fratture. La cosa può sembrare sorprendente, ma spesso tutto accade come se il mondo esterno e i nostri pensieri entrassero in risonanza.
Gli incidenti segnano momenti di rottura nella nostra vita e talvolta sono dei veri e propri punti di non ritorno; ma sono anche occasioni di apertura ad una vita diversa o ad un’altra dimensione dell’esistenza.
Prendiamo a testimone anche il mondo esterno e accade che siamo noi a suscitare questi eventi, come se attraverso di essi cercassimo di dirci qualcosa. Attraverso i nostri pensieri e i nostri atteggiamenti risvegliamo certe reazioni intorno a noi, prepariamo situazioni destinate a maturare e a trovare compimento in eventi che si produrranno anche più tardi. Un evento, che si tratti di un incidente o di una stress di altra natura, può essere il messaggero segreto di un nostro desiderio segreto: ciò che pare l’esito del caso spesso è suscitato dal desiderio di cambiare qualcosa nella nostra vita.
Recenti studi americani hanno dimostrato che il profilo psicologico delle persone che hanno incidenti gravi è simile a quello dei suicidi.
Dott. Mauro Piccini
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