Un piccolo spunto di riflessione sulla “vera” comunicazione, sull’importanza della parola per entrare in contatto con gli altri e con se stessi mettendo in gioco “tutte le emozioni di cui siamo capaci”.
Comunicare è condividere la nostra intimità con quella degli altri e come scrive l’autore del libro “Le parole che ci salvano” solo in questo modo la comunicazione non resterà un gesto tra tanti, ma diventerà un gesto che cura. Un gesto che mai come oggi è tanto necessario e urgente fare.
“Non ci si parla molto, oggi, in famiglia e in società: non si ha tempo, non si ha molto tempo, per parlare e per ascoltare le cose che ci stanno magari a cuore, e si sbriciola il tempo del parlare nel tempo della chiacchiera che nulla fa riemergere delle aspirazioni e delle nostalgie, delle solitudini e dei silenzi dell’anima. Ma le chiacchiere, le conversazioni mondane, non danno un senso alle giornate e alle stagioni della vita; scorrono veloci e inafferrabili, inconsistenti e intermittenti, liquide e acquatiche, mai in profondità e sempre in superficie; non lasciano tracce nella memoria vissuta che non ha nemmeno il tempo di trattenerle e di rielaborarle, di farle proprie e di archiviarle.
Nelle famiglie e negli incontri sociali il parlarsi è intralciato dalla presenza ancora oggi dilagante della televisione, e dalla sua influenza egemonica sui modi di comunicare, e sui modi di dare un senso alla vita. Non è in gioco solo la modalità opaca e ghiacciata, unilaterale e uniforme, con cui le informazioni sono offerte a chi guarda la televisione, ma anche la selezione e la qualità delle informazioni che non tengono conto delle risonanze psicologiche ed emozionali alle quali esse danno luogo. Non mi interessa analizzare i contenuti politici delle informazioni televisive, ma i loro contenuti emozionali: non di rado inquietanti, e slabbrati.
La libertà di espressione è un bene giustamente intoccabile, ma nel comunicare qualcosa di doloroso, o di ambiguo, si dovrebbero tenere presenti le risonanze psicologiche ed emozionali che ne conseguono, e che possono trascinare con sé angoscia e disperazione, aggressività e distruttività. La febbrile insistenza nel rappresentare e nell’illustrare modelli di vita dolorosi, come sono quelli ancorati alle forme dolorose del suicidio, della morte volontaria, o crudeli, come sono quelli ancorati alle forme distruttive della vita, non può non essere considerata possibile sorgente di angoscia, ma anche di contagio, e di dipendenza psichica.
( Non potrei non ricordare in un contesto infinitamente più umano ed elitario la cascata di suicidi conseguenti alla pubblicazione, nel 1774, del capolavoro di Johann Wolfgang Goethe, I dolori del giovane Werther. Sì, tempi lontanissimi, e nondimeno emblematica testimonianza di una comune inclinazione dell’anima umana a essere sollecitata alla imitazione di azioni virtualmente presenti in ciascuno di noi).
Cose, che si ascoltano e si vedono nella vita delle famiglie, con le loro inquietanti risonanze emozionali, e che sottraggono tempo alla parola, al parlarsi, al dialogo, al colloquio, allo scambio di pensieri e di emozioni, di timori e di attese, di illusioni e di speranze, che hanno bisogno di essere portate alla luce della comunicazione, e della reciprocità della comunicazione. Come sempre più difficili, cose talora addirittura impossibili, in molte famiglie nelle quali la televisione e social network, isolamento e distrazione, si associano in cocktail impenetrabili all’ascolto e al dialogo: alle emozioni.
Si finisce così nei deserti di una comunicazione che non crea né ascolto né condivisione”.
da: Le parole che ci salvano – Eugenio Borgna
Vuoi rimanere aggiornato sulle nostre ultime news?
Iscrivendoti al servizio acconsenti al trattamento dei dati secondo l’informativa UE 2016/679 (Leggi di più)