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di James F. Tracy tratto dall'articolo pubblicato su 
Global Research 6/10/2012 http://www.globalresearch.ca

Dalla persuasione alla coercizione
Il “complesso psicofarmaceutico”, formato dalla moderna psichiatria, dall’industria farmaceutica e da un apparato normativo accomodante, si mantiene attraverso la fiducia pubblica nella sua competenza medico-scientifica e la leggittimazione ottenuta attraverso il marketing e le pubbliche relazioni. Ora, una combinazione di fattori – il coinvolgimento più diretto dell’amministrazione pubblica in campo medico attraverso la legge sulla sanità accessibile (Affordable Care Act), la pubblicazione nel 2013 della nuova edizione ampliata del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (5° ed., DSM-5) dell’American Psychiatric Association (APA), oltre a sistemi più completi di vigilanza della sanità federale e alle tecnologie di identificazione biometrica – indica che le norme comportamentali e i protocolli di psichiatria saranno sempre più integrati nella vita quotidiana. In generale, il complesso psicofarmaceutico appare sempre più in procinto di abbandonare un paradigma basato sulla persuasione e la fiducia per spostarsi verso un modello che si avvale della coercizione e della legge per far rispettare il suo ideale di normalità.

La ragione, facoltà dell’uomo di comprendere il mondo attraverso il pensiero, si contrappone all’intelligenza, capacità dell’uomo di manipolare il mondo con l’aiuto del pensiero. La ragione è lo strumento dell’uomo per raggiungere la verità, l’intelligenza è lo strumento dell’uomo per manipolare meglio il mondo; la prima è essenzialmente umana, la seconda appartiene alla parte animale dell’uomo.  – Erich Fromm

Dagli anni Cinquanta in poi, ai farmaci psicotropi si è accompagnata la brillante e redditizia opera di pubbliche relazioni e marketing messa in moto dal complesso psichiatrico-farmaceutico. La diffusione e l’uso di queste sostanze  si sono insidiati nella mente collettiva  attraverso il condizionamento di una riverenza culturale nei confronti della competenza professionale, ulteriormente amplificata dalla pubblicità e da una comunicazione con fini promozionali.
Oggigiorno, il 20% degli americani assume almeno un farmaco per trattare uno o più disturbi psichiatrici. Fra il 2001 e il 2004, l’uso fra le donne e i bambini sotto i 10 anni è raddoppiato. Secondo i Centri per il Controllo delle Malattie (CDC), la classe di antidepressivi SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della seretonina), sul mercato con nomi commerciali oggi comuni,  quali Zoloft, Celeza, Effexor e Paxil, è una delle categorie farmaceutiche più prescritte : ne fa uso l’11% degli americani dai 12 anni in su. I farmaci sono prescritti diffusamente  tanto dagli psichiatri quanto dai medici di base come cura per i disturbi delineati nel DSM, il manuale attraverso cui la professione psichiatrica esercita un’autorità a livello mondiale nel definire che cos’è una malattia mentale, con una vasta gamma di designazioni comportamentali applicabili a migliaia di anomalie comportamentali soggettive. Sempre secondo i CDC, l’APA raccomanda gli antidepressivi per una grossa proporzione di presunte malattie, fra cui quelle che indica come “sintomatologie depressive da moderate o gravi”. Eppure, come nota lo storico David Healy, l’attuale DSM-IV ha “opportunamente reso impossibile definire come disturbo la dipendenza da SSRI, antipsicotici o benzodiazepine”.
Fra il 1988 e il 1994 e fra il 2005 e il 2008, l’uso di antidepressivi negli USA è aumentato quasi del 400%. Se  l’uso dovesse espandersi ulteriormente lungo questa traiettoria, intorno al 2020 i soli antidepressivi sarebbero assunti da due persone su cinque. Le vendite di antidepressivi hanno toccato il picco di 15 miliardi di dollari nel 2003, ma la scadenza dei brevetti, l’incapacità dell’industria farmaceutica di produrre novità di successo per sostituirli, le notizie sempre più diffuse sull’inutilità e, spesso, la pericolosità di questi farmaci potrebbero far ridurre le vendite a 6 miliardi di dollari nel 2016.
Il quadruplicarsi del consumo di antidepressivi dimostra come la “depressione” e l’ntroduzione degli SSRI siano stati indubbiamente una manna per le compagnie farmaceutiche. Eppure, ci si interroga molto di meno sul fenomeno sociale che ha portato la depressione e gli antidepressivi a diventare un elemento scontato nella mente collettiva.
Le compagnie farmaceutiche esercitano un enorme potere sul dibattito e sull’opinione pubblica, attraverso una studiatissima campagna di pubblicità e pubbliche relazioni che ingigantisce l’immagine dei prodotti, spesso inutili e pericolosi, che vendono.  In particolare, è stata sfruttata l’inclinazione culturale a mostrare deferenza verso l’opinione degli esperti: in questo caso, verso la psichiatria.

Una professione costruita
Nel 2006, il giornalista investigativo Jon Rappoport ha condotto una serie di interviste a Ellis Medavoy, pseudonimo utilizzato da un esperto di pubbliche relazioni di alto livello che ha giocato un ruolo importante nell’orchestrare e manipolare la percezione pubblica di crisi sanitaria di ampia portata, fra cui quella dell’HIV/AIDS. Fra le varie rivelazioni significative, questo esperto di comunicazione ha spiegato come la competenza psichiatrica sia in gran parte il risultato di tecniche di propaganda. “Problema uguale disturbo mentale, uguale diagnosi, uguale farmaci”, osserva Medavoy. “Il lavoro delle pubbliche relazioni è di confezionare il concetto e collocarlo in un contesto che sa di scientifico, mettendoci dentro ogni tipo di discorso sulla ‘ricerca’…e così hai creato un settore produttivo. Ma in senso lato, quello che crei è un sacerdozio della mente. Un sacerdozio ufficiale. Autorizzato. E vendi anche quello, usando altre parole. Lo vendi, veramente. ‘Nessun altro sa come funziona le mente. Solo gli psichiatri possiedono questo sapere.’ Tu vendi scemenze tipo ‘ha bisogno di un aiuto professionale’ e ‘occorre sottoporsi a una terapia’ e  ‘nuove scoperte fondamentali’. Le rifili in ogni modo possibile.”

Il meccanismo per instillare una fede collettiva nella duplice divinità della farmacia e della pschiatria prevede vari processi specifici nell’ambito della pubblicità e delle pubbliche relazioni. Per esempio, ci sono esperti di linguistica che elaborano i nomi commerciali dei farmaci per “attingere a diverse sinapsi nel cervello dei clienti: quelle che legano il semplice suono delle vocali e delle consonanti – dette fonemi – a significati specifici e perfino ad emozioni”. In questo modo, il nome dell’SSRI per eccellenza, il Prozac, è stato escogitato proprio per avere una risonanza specifica nella mente dei consumatori. “Prozac: Pro è un prefisso abbastanza banale, ma i suoni p, z e k conferiscono tutti una forte qualità attiva, di audacia. Questi crepitii e ronzii suggeriscono a livello subliminale l’attività, a  sostegno del suffisso -ac, che richiama la parola action.” Il nome di uno dei cugini del Prozac, lo Zoloft, utilizza lo stesso metodo di ingegneria linguistica. “Zoloft: Zo significa vita in greco e loft ne eleva il concetto.”
Il Giappone è il terzo mercato farmaceutico al mondo e offre un caso esemplare della capacità dell’industria farmaceutica di manipolare e sedurre una società inducendola a fare un uso su ampia scala di specifiche sostanze psicoattive. A partire dal 1998, il paese ha allentato i requisiti normativi per la vendita e la promozione dei farmaci. Già nel 2001 proliferavano pubblicità di farmaci in stile statunitense, dirette al consumatore, e alcune aziende con sede negli USA controllavano quasi il 50% del fatturato farmaceutico giapponese di 364,2 miliardi di dollari.
La crescente popolarità e disponibilità di prodotti farmaceutici di marca in un ambiente culturale non occidentale pose le basi per le strategie di marketing che prevedevano di influenzare in tempi brevi la percezione pubblica in modo da superare le barriere culturali e generare domanda.
Negli anni Ottanta, quando la compagnia farmaceutica giapponese Meiji Seika chiese all’agenzia regolatrice giapponese l’approvazione di un farmaco per la sindrome ossessivo-compulsiva (OCD), i funzionari dell’azienda si resero conto che in Giappone non esistevano degli standard diagnostici per l’OCD. Allora fu l’azienda stessa a scrivere una propria definizione, usando come modello quella statunitense. Alla fine degli anni Novanta, Meiji Seika portò la pratica su un livello del tutto nuovo quando ottenne il via libera dall’agenzia regolatrice per commercializzare il proprio prodotto SSRI, il Luvox. Dopo aver ricevuto l’approvazione, l’azienda sostenne una dura battaglia per fare accettare questo farmaco in un paese in cui, secondo il sondaggio condotto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità all’inizio degli anni Novanta, la prescrizione più comune per un “disturbo dell’umore” era un blando tranquillante. Alla luce di ciò, Meiji Seika e vari altri partner aziendali interessati procedettero a “mettere in atto niente di meno che un radicale cambiamento culturale”, come spiegava un osservatore.
“Una fase cruciale: alterare il linguaggio usato dalla gente per parlare di depressione. La parola giapponese per designare la depressione clinica, utsu-byo, era sgradevolmente associata a gravi malattie psichiatriche. Così la Meiji e i suoi partner iniziarono a usare l’espressione kokoro no kaze, traducibile come ‘il raffreddore dell’animo’. Il messaggio: se in inverno prendi delle pillole per alleviare la congestione nasale, perchè non fare lo stesso anche per la depressione?” Il direttore di marketing di Meiji e affiliati ammise di fare uso regolarmente del termine kokoro no kaze nello spiegare ai giornalisti giapponesi “perchè era necessario sfatare il tabù che circondava la malattia”.
L’America era molto più avanti del Giappone nel riconoscimento dei farmaci per affrontare le malattie mentali. La nozione che la depressione fosse una potenziale epidemia che richiedeva un “trattamento” era stata inculcata sulla mente collettiva molti anni prima dell’introduzione, nel 1988, del popolarissimo SSRI Prozac. Quest’idea, tuttavia, richiede continui sforzi, e lo stesso vale per il discutibile concetto di “screening” per valutare “umori” o comportamenti potenzialmente dannosi, una pratica attualmente in uso presso alcune strutture sanitarie statunitensi che utilizzano le classificazioni del DSM-5.

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