LA “FINESTRA DI OVERTON”

LA “FINESTRA DI OVERTON”

Joseph Overton era un sociologo americano. Morto giovane, a 43 anni. Nel 2003 si schiantò a bordo di un aereo ultraleggero da lui stesso pilotato, in circostanze non del tutto chiare.

Ha avuto una certa notorietà postuma per la sua teoria di ingegneria sociale, denominata appunto “The Overton Window”, la finestra Overton. Nei suoi studi cercava di spiegare i meccanismi di persuasione e di manipolazione delle masse, in particolare di come si possa trasformare un’idea da completamente inaccettabile per la società a pacificamente accettata ed infine legalizzata.

Tecniche affinate, gli esperti di pubblicità e marketing ben le conoscono e sempre di più vengono applicate su scala globale dai think tank dell’economia e della politica per orientare il modo di pensare e le inclinazioni dell’opinione pubblica.

In fondo è lo schema tipico delle dittature. Ci si chiede infatti, spesso a posteriori, come interi popoli, non solo e non sempre a seguito di pressioni violente, abbiano potuto a un certo punto trovarsi a pensare tutti nello stesso identico modo e a condividere supinamente stili di vita prima nemmeno immaginabili, per ritrovarsi infine rinchiusi in una caverna di prigionia, come nella fiaba del Pifferaio Magico.

Eppure è successo e succede. Anzi nell’era di internet e dell’intelligenza artificiale – che ai tempi di Overton era appena agli albori – si sono spalancati nuovi sconfinati orizzonti, dove paiono materializzarsi scenari degni dei romanzi distopici di Orwell e Benson, dominati da invisibili grandi fratelli e padroni del mondo.

PROGRESSIONE A TAPPE

Sia chiaro che Overton non era un moralista, né uno strenuo difensore di principi non negoziabili su frontiere di lotta contro il relativismo etico. Neppure può essere ascritto tra i propugnatori di tesi “libertarie” per cui, dal momento che non esiste alcuna legge naturale, all’individuo tutto è concesso rispetto a se stesso e tutto può divenire lecito. Semplicemente Overton studia il percorso e le tappe attraverso le quali, ogni idea, sia pur assurda e balzana, può trovare una sua “finestra” di opportunità. Qualunque idea, se abilmente e progressivamente incanalata nel circuito dei media e dell’opinione pubblica, può entrare a far parte del mainstream, cioè del pensiero diffuso e dominante. Comportamenti ieri inaccettabili, oggi possono essere considerati normali, domani saranno incoraggiati e dopodomani diventeranno regola, il tutto senza apparenti forzature.

Secondo Overton questa progressione è scandita da una precisa sequenza che può essere sintetizzata nelle seguenti fasi.

  1. Impensabile E’ il momento in cui la “finestra” si apre. L’idea e i comportamenti annessi risultano impresentabili, suscitano generale repulsione, sono oggetto di divieto. Però se ne comincia a parlare … e, senza che nessuno se ne renda conto, se ne parla sempre di più. Il tam tam è partito e l’idea è pronta per il passaggio successivo.
  2. Divieto, ma con qualche eccezione A questo punto si apre il dibattito. La “finestra” resta confinata nel campo delle trasgressioni non ammesse. Tuttavia… non si può generalizzare. In alcuni casi occorre considerare le motivazioni e l’idea, per quanto estrema, radicale e inopportuna può trovare spazio, quanto meno a livello di provocazione.
  3. Accettabile “Io non lo farei mai, ma perché impedirlo ad altri?” Sia pur con i dovuti distinguo la “finestra” entra nella sfera del socialmente rilevante. Nei salotti televisivi scendono in campo esperti a vario titolo. L’opinione pubblica sospende il giudizio, si sposta verso posizioni più “soft” all’apparenza neutre.
  4. Ragionevole A questo punto l’idea ha già perso quasi del tutto l’iniziale carico eversivo. “Non c’è nulla di male”. E’ più che comprensibile,  normale, assolutamente normale… anzi necessario, “bisogna creare le condizioni affinché…”
  5. Diffuso La “finestra”, salita ad un nuovo stadio,  raccoglie crescente consenso politico e nel contempo può far aumentare i consensi alla politica. Rappresenta ormai un sentire comune ampiamente condiviso, che si specchia nella cultura popolare (testimonials, cantanti, attori, programmi televisivi ecc.)
  6. Legale  L’idea viene ufficialmente recepita nell’ordinamento dello Stato. L’obiettivo è raggiunto.

CANNIBALI, PERCHÉ NO?

La “finestra di Overton” non è progressista, né reazionaria. Lo schema funziona allo stesso modo sia che gli imput arrivino da destra, dal centro o dalla sinistra.

Qualche tempo fa il regista russo Nikita Mihalkov, ispirandosi alla Overton Window, ha ipotizzato gli spostamenti della “finestra” su un’idea oggi ritenuta totalmente estrema (…ma neanche troppo): quella del cannibalismo. Inaccettabile ai più, persino orripilante. Passata alla seconda tappa, la narrazione impercettibilmente cambierà: chiamare i mangiatori di carne umana “cannibali” è una semplificazione, meglio sarebbe parlare di “antropofaghi”. In alcuni casi il fenomeno, diffuso sin dall’antichità e radicato in alcune culture, trova spiegazione in lunghi periodi di carestia e forse anche in una predisposizione su base genetica.

Se un gruppo di pressione o una lobby riuscirà a far spostare la “finestra” in avanti, avremo un ritratto dei precedenti “cannibali” quasi edificante. Nei dibattiti qualche studioso comincerà a chiamarli “antropofili” (amanti del genere umano). Questa abitudine alimentare non va criminalizzata – si dirà –  è un’opzione possibile e in fondo naturale, fatte salve le precauzioni igienico-sanitarie, a condizione che non si provochi un danno permanente a terze persone e che queste siano consenzienti. E così via di seguito …

RANE BOLLITE

Per restare in tema già Noam Chomsky, filosofo anarchico contemporaneo, aveva declinato in termini sociologici il cosiddetto “principio della rana bollita”, prendendo spunto dai  risultati di un vecchio esperimento scientifico ottocentesco.

Se si butta una rana in un contenitore di acqua bollente, l’anfibio, come tocca l’acqua, spicca un salto fulmineo e quasi sempre riesce ad uscirne vivo. Se si mette nell’acqua fredda e si riscalda molto lentamente il contenitore fino ad ebollizione, la rana finisce bollita senza mostrare alcun segno di reazione e senza tentare di venirne fuori.    

“Se guardiamo ciò che succede nella nostra società da alcuni decenni – sostiene Noam  Chomsky – ci accorgiamo che stiamo subendo una lenta deriva alla quale ci abituiamo. Un sacco di cose, che ci avrebbero fatto orrore 20, 30 o 40 anni fa, a poco a poco sono diventate banali, edulcorate e oggi ci disturbano solo leggermente o lasciano decisamente indifferenti la gran parte delle persone. In nome del progresso e della scienza, i peggiori attentati alle libertà individuali, alla dignità della persona, all’integrità della natura, alla bellezza ed alla felicità di vivere, si effettuano lentamente ed inesorabilmente con la complicità costante delle vittime, ignoranti o sprovvedute”.

Proprio come la “rana bollita”, cotta a puntino, mentre sguazzava tranquilla nella sua acqua sempre più tiepida. C.F.

Da: https://www.nichelino.com/news/index.php/approfondimenti/33-etica/2862-la-finestra-di-overton
Dott. Mauro Piccini

VITAMINA D, METANALISI CONFERMA EFFICACIA CONTRO INFEZIONI RESPIRATORIE. IN UK FOCUS SU COVID-19

VITAMINA D, METANALISI CONFERMA EFFICACIA CONTRO INFEZIONI RESPIRATORIE. IN UK FOCUS SU COVID-19

Da Nicola Miglino
La vitamina D è efficace nel prevenire infezioni delle vie respiratorie ma solo a dosi giornaliere comprese tra 400 e 1.000 UI: oltre non produce benefici aggiuntivi. Queste le conclusioni di una metanalisi pubblicata nei giorni scorsi su The Lancet Diabetes & Endocrinology, condotta da un gruppo di studio internazionale che ha completato così un’analisi della letteratura già avviata nel 2017.

All’epoca, infatti, vennero presi in esame 25 trial clinici randomizzati per studiare la correlazione tra apporto di vitamina D e incidenza di infezioni respiratorie. L’evidenza, su circa 11 mila persone coinvolte, fu di una protezione generale garantita dalla supplementazione di vitamina D rispetto al placebo, in particolare tra quanti, al basale, presentavano una situazione di ipovitaminosi. I dati, oggi, si sono completati con l’aggiunta di ulteriori 18 studi clinici randomizzati che hanno portato a circa 50 mila le persone esaminate.

Alla luce, dunque, di questo aggiornamento, la metanalisi ha concluso che l’integrazione con vitamina D, rispetto al placebo, determina una riduzione dell’8% del rischio di infezioni acute respiratorie, indipendentemente dai livelli basali di vitamina D. Non si rivelano necessarie dosi particolarmente elevate, considerato che l’effetto migliore, con una riduzione del rischio del 42%, si osserva con supplementazioni giornaliere tra 400 e 1.000 UI, di gran lunga più efficaci rispetto a quelle settimanali o mensili.

Secondo gli Autori, l’effetto della vitamina D potrebbe essere dovuto da una parte a un rafforzamento della risposta immunitaria antivirale innata e, dall’altra, a un’inibizione di quella infiammatoria. Nelle conclusioni, sottolineano come gli operatori sanitari dovrebbero valutare l’utilità di una supplementazione nelle persone a rischio di carenza, come popolazioni con scarsa esposizione al sole, anziani e soggetti obesi o in sovrappeso. In questo caso, l’integrazione giornaliera sarebbe di supporto sia per la salute delle ossa sia nel contrasto alle infezioni respiratorie.

Una raccomandazione finale è di non trarre conclusioni da questa metanalisi rispetto alla pandemia in corso e all’infezione da Sars-coV-2, giacché non ve ne sono i presupposti e sono necessari studi dedicati. A questo proposito, gli Autori segnalano il Coronavit, in corso il Uk sotto il coordinamento della Queen Mary University of London, con 6.200 partecipanti e la cui conclusione è prevista per il prossimo 30 giugno.

Da: http://www.nutrientiesupplementi.it/attualita/item/1415-vitamina-d-metanalisi-conferma-efficacia-contro-infezioni-respiratorie-in-uk-focus-su-covid-19

Dott. Mauro Piccini

MALATTIA COME SIMBOLO 3° PARTE

MALATTIA COME SIMBOLO 3° PARTE

Il dolore che si manifesta sul piano fisico è sempre il riflesso di un dolore morale che non ha trovato altro modo per esprimersi. Ed è spesso per evitare si essere sommersa che la nostra coscienza si mette al riparo da questo dolore morale, deviandolo almeno in parte nel corpo. L’emozione, a volte, è tale da poter affondare l’immagine che abbiamo di noi, per la quale proviamo a volte un tale attaccamento, che come se non esistesse altro nella vita.

L’immagine del capitano della nave che non l’abbandona nel naufragio evoca la necessità di “mollare” secondo la quale basterebbe coltivare il distacco, lasciare andare la collera, le emozioni e perdonare, e così via.

L’idea non è sbagliata, ma cos’è che bisogna mollare? Non serve a nulla al malato che soffre di sciatica sentirsi dire che dovrebbe lasciare andare la sua collera.

Le cose non sono così semplici, perché il tutto avviene a nostra insaputa, e la nostra difficoltà non sta tanto nel mollare la presa, quanto nel riconoscere. Mollare la presa deriva dalla presa di coscienza e questo in modo del tutto naturale ed indolore. La difficoltà non sta tanto nel prendere le distanze, quanto nel riconoscere ciò che sta succedendo.

Ecco perché ho parlato di punto cieco a proposito dello stress. Ci salva il fatto di avere due occhi e dunque la capacità di vedere la situazione che ci ha presi in trappola da una prospettiva diversa.

L’essere umano è causa di sofferenza e di danni intorno a sé, in quanto essere imperfetto. Ci è facile ritenerci vittime, senza essere sempre consapevoli dei guai che noi stessi causiamo; accettare l’imperfezione umana è l’inizio del perdono autentico, che si presenta come una comprensione profonda e uno slancio del cuore.

Altra forma di perdono, che desidero menzionare, non è tanto un perdono ma quanto piuttosto un riconoscimento, che avviene quando prendiamo coscienza della nostra parte di responsabilità in quanto ci accade. In situazioni conflittuali, accade raramente che il torto stia tutto da una parte sola, e se da un lato siamo innocenti, dall’altro abbiamo le nostre responsabilità. La questione vera, quando tutto questo ci fa ammalare, è capire cosa quel conflitto sottolinea dentro di noi e perché questo ci fa star male. Guardare la situazione con onestà richiede un grande distacco da se stessi, il che è anche l’inizio della guarigione.

Uno dei principali ostacoli alla nostra libertà, come anche alla nostra comprensione, è il diniego. Attraverso  la malattia cerchiamo di preservarci e talvolta questa proiezione è talmente efficace che non filtra assolutamente nulla sul piano conscio.

La libertà non consiste nel liberarsi delle persone che ci stanno intorno o dei nostri obblighi, perché non vuol dire necessariamente “cambiare vita”; si tratta invece di liberarci di certe illusioni che hanno intrappolato per troppo tempo la nostra coscienza. Non possiamo cambiare il mondo esterno solo perché così decretiamo, ma l’esterno muta quando, dentro, siamo liberi.

Proprio come lo stress, la malattia che combattiamo è una medaglia a due facce: da un lato è nemica, ma dall’altro tenta di guarirci.

La malattia cerca di guarirci dall’emozione che l’ha generata.

Gestiamo le emozioni complesse attraverso il corpo e non ce nulla di male nel farlo. La malattia è un evento naturale, di cui non bisogna colpevolizzarsi, proprio come non dobbiamo colpevolizzarci per non riuscire a guarire dopo aver letto molti libri sull’argomento.

La malattia fa parte della condizione umana e deve essere una fase da accettare come tale.

Allora l’incontro con ciò che può guarirci avviene solo per caso (e come diceva Einstein: “il caso è la maschera che  Dio assume quando non vuole farsi riconoscere”) quando siamo pronti e si prepara attraverso una serie di tappe silenziose, per mezzo delle quali la malattia cerca di liberarci dalla nostra sofferenza.

Dott. Mauro Piccini

MALATTIA COME SIMBOLO 2° PARTE

MALATTIA COME SIMBOLO 2° PARTE

 

Come è possibile immaginare che attraverso la malattia e la sofferenza stiamo preservando qualcosa?

Quello che diciamo attraverso la malattia è che abbiamo ragione di aver male.

Con la malattia, in qualche modo noi ci giustifichiamo, giustifichiamo la fondatezza dei sentimenti che proviamo, mostrando che non sono una visione mentale bensì una realtà oggettiva.

Con la malattia abbiamo le prove della nostra sofferenza, ma di tutto questo non siamo coscienti e il prezzo da pagare è alto.

Prendiamo a testimone il corpo, attraverso il quale anche le persone che ci stanno accanto diventano testimoni. Se dite ad una persona che soffre, che il suo è un disturbo psicologico, probabilmente vi ribatterà che a lei fa male e che quel male è reale. E anche aggiungerà anche che voi, che avete la fortuna di star bene, non potete capire che cosa sta passando.

Siamo malati e bisogna che i nostri cari vi si adattino; facendo della nostra sofferenza morale una realtà fisica, togliamo loro la possibilità di ignorarla o di prendere le distanze rispetto a questa realtà. Ma , in realtà, siamo noi i primi a soffrirne e l’impotenza delle persone care nel darci sollievo ci lascia da soli.

Solitamente si incrimina lo stress come causa iniziale della malattia.

Tuttavia la nostra vita è piena di preoccupazioni, delusioni, rabbie. Gli stress con cui ci confrontiamo sono molti e permanenti.

Ma allora ogni volta ci ammaliamo? Certo che no. Ci vuole un altro fattore perché lo stress ci faccia ammalare. E questo non dipende dall’intensità dello stress, ma da altre due cose: il luogo in cui lo stress si manifesta e la complessità dell’emozione che proviamo.

Quella che per uno è una situazione drammatica, per una altro è solo un’esperienza senza rilevanza.

Stress è un termine inglese che significa “ sottolineare” , “ mettere l’accento su qualcosa”.

Immaginate l’esempio della quercia e del giunco.

Si scatena una tempesta, il giunco si piega e si adatta, mentre la quercia è troppo rigida e finisce per spezzarsi. Ciò che il vento “ sottolinea” è la rigidità della quercia; ma il vento di per sé è neutro, e infatti per il giunco è solo un gioco. Immaginate, ora, un uccello posato sul ramo della quercia e poi sul giunco. La quercia è rigida, ma è solida e capace di sostenere chi in essa trova rifugio, si fa carico di questo peso, mentre il giunco non ne è affatto capace. Tanto per la quercia come per il giunco, lo stress ha delle conseguenze soltanto quando “ sottolinea” un difetto della struttura; difetto che come vedete è come una buona qualità che è presente in quantità eccessiva.

Per noi , dunque,  non è tanto lo stress, in sé e per sé, ad essere dannoso, ma ciò che lo stress sottolinea.

Non è l’intensità dello stress a spiegare la malattia. Vi sono persone che vivono situazioni difficilissime senza per questo ammalarsi, ma poi si ammalano in seguito ad uno stress la cui intensità ci sembra decisamente inferiore. Questo ha a che fare con la nostra struttura. Il corpo del bambino piccolo è morbido ed elastico ma, si addensa con l’età tanto per tenerci in piedi quanto per affrontare la vita. Accade qualcosa di simile anche sul piano psicologico. Ci “addensiamo” ogni tanto prendiamo dei colpi che ci induriscono e piano piano ci cristallizzeremo. Non sono le nostre zone flessibili ad essere problematiche, ma le zone cristallizzate che presumibilmente reagiranno malamente agli urti.

La vita ci induce a lavorare proprio sui punti della cristallizzazione, per ammorbidirli.

E’ raro che uno stress grave si presenti senza essere stato preceduto da qualche messaggio che abbiamo ignorato.

Ciascuno di noi ha un suo “punto cieco”, una zona di sé, del proprio atteggiamento, nel quale inciampa ogni volta, come se fosse incapace di vederla.

La nozione di “punto cieco” si riferisce al punto cieco della nostra retina, e il paragone non è trascurabile. Infatti, quando guardiamo il mondo con un occhio solo, quella piccola parte di esso che viene proiettata sulla retina non viene percepita; per fortuna abbiamo due occhi e la vista dell’uno compensa il punto cieco dell’altro. In questa idea si nasconde una chiave per la nostra guarigione, perché ciò che l’altro occhio ci dà, è la possibilità di guardare da un punto di vista diverso la realtà in cui incespichiamo.

L’emozione che proviamo è come un groviglio di sentimenti contraddittori. Se siamo in collera con una persona che ci è indifferente, si tratta di un sentimento sgradevole ma abbastanza semplice da gestire; questa seccatura ci irriterà ma non ci toccherà nel profondo. Se però la situazione ci tocca su di un punto involontariamente ambiguo o contradditorio allora le cose cambiano.

Questa contraddizione, di solito, è nascosta.

Ecco perché attraverso la malattia cerchiamo di dirci le cose, ma senza dircele chiaro e tondo. Resta una parte di equivoco, una zona nascosta.

Scoprire che il nostro mal di gola è il risultato della collera non è tanto difficile, ma quel che è difficile è svelare quale sentimento si nasconde dietro a quella collera.

Dott. Mauro Piccini  

MALATTIA COME SIMBOLO 1° PARTE

MALATTIA COME SIMBOLO 1° PARTE

Attraverso la malattia parliamo a noi stessi e prendiamo  il nostro corpo come un testimone: la manifestazione, la lesione e il dolore sono il riflesso preciso delle emozioni che stiamo vivendo.
I sentimenti si trasformano in sensazioni e questo ci irrita, ci da fastidio; ma che cosa ci irrita e ci rode e a che cosa quel dolore è sordo?
Il medico ci ascolta e scrive “gastrite”; su nostra richiesta “classifica” ciò che proviamo e questo ci rassicura, diventa qualcosa di noto e misurabile.
Ma così facendo, quello che cercavamo di comunicarci attraverso questo sintomo ha buone possibilità di essere accantonato in cantina.

La diagnosi è un atto necessario ma è un arma a doppio taglio. Confidare la malattia al nostro medico è logico perché ha il compito di aiutarci e di curarci, ma se gli deleghiamo la responsabilità di ciò che proviamo, se la malattia diventa una faccenda solo del medico che ne sarà dell’interrogativo, che attraverso di essa rivolgiamo a noi stessi?
Quindi perdiamo il senso di quello che cerchiamo di comunicare a noi stessi. Dato che ci parliamo usando il corpo come metafora, ecco che ciò che tentiamo di comunicare diventa incomprensibile. Soffriamo senza sapere il perché, come se ci mancasse la chiave di comprendere il messaggio, ascoltare la propria malattia come un linguaggio interiore è un primo passo verso la guarigione
.
La malattia è un modo di comunicare sia con se stessi che con gli altri perché, consapevolmente o meno,  in tal modo esprimiamo ed esterniamo il nostro mal-essere.
La metafora è un “procedimento del linguaggio che consiste nel modificare il senso attraverso una sostituzione analogica”.
La metafora è il modo più semplice e diretto per esprimere qualcosa che è difficile da definire. E molto spesso ci serviamo di uno dei nostri organi come metafora per comunicare con noi stessi e dirci qualcosa di figurato.

Le impressioni fisiche che proviamo sono un modo di descrivere ciò che sentiamo. Anche il punto del corpo in cui si manifesta il nostro malessere non è casuale. In qualche modo, inconsciamente, scegliamo l’organo che la malattia colpisce. La scelta è tutt’altro che casuale, perché corrisponde alla nostra percezione inconscia di quell’organo o della sua funzione. Ciò a cui serve l’organo, viene usato come metafora per esprimere il disagio.

La malattia è un modo curioso di dirci le cose, perché è come se ci parlassimo a mezzi termini. Quando parliamo del “capo” di un azienda è una metafora perché l’azienda non ha un “capo” più di quanto abbia “i piedi”; ma ognuno di noi sa che la testa, “IL CAPO” è la parte che dirige, quindi tutti capiscono cosa vuol dire.

Tutt’altro può essere che un mal di capo rifletta il nostro dolore nel non potere dirigere a nostro piacimento certe situazioni. In questo modo, attraverso la malattia, ci capiamo. Contemporaneamente, però non capiamo che cosa ci sta succedendo, perché mai ci siamo ammalati, né a cosa serva questa sofferenza dalla quale aspiriamo solo a liberarci velocemente.

Sul fatto che certe malattie siano psicosomatiche tutti sono d’accordo.

Ma le altre malattie che siano infettive o di origine meccanica (ernia del disco) o tumorali sono anch’esse un modo di parlare a noi stessi? La causa della malattia ha due facce. Non ha senso dire quale sia quella giusta, perché lo sono entrambe: nessuno nega la responsabilità di un microrganismo o di un’ernia.

E’ difficile vedere in contemporanea il lato testa e croce della stessa medaglia; i nostri occhi ce lo impediscono e la mente,  come gli occhi,  ha bisogno di prendere in considerazione i due aspetti separatamente.
Non scordate l’immagine delle due facce della medaglia. Queste due facce sono giuste entrambe e quando si parlerà della dimensione psicologica di una sciatica, non sarà per negare l’esistenza di un’ernia discale e viceversa.

Ciò che vale per la malattia può valere anche per gli incidenti, i traumi, le fratture. La cosa può sembrare sorprendente, ma spesso tutto accade come se il mondo esterno e i nostri pensieri entrassero in risonanza.
Gli incidenti segnano momenti di rottura nella nostra vita e talvolta sono dei veri e propri punti di non ritorno; ma sono anche occasioni di apertura ad una vita diversa o ad un’altra dimensione dell’esistenza.
Prendiamo a testimone  anche il mondo esterno e accade che siamo noi a suscitare questi eventi, come se attraverso di essi cercassimo di dirci qualcosa. Attraverso i nostri pensieri e i nostri atteggiamenti risvegliamo certe reazioni intorno a noi, prepariamo situazioni destinate a maturare e a trovare compimento in eventi che si produrranno anche più tardi. Un evento, che si tratti di un incidente o di una stress di altra natura, può essere il messaggero segreto di un nostro desiderio segreto: ciò che pare l’esito del caso spesso è suscitato dal desiderio di cambiare qualcosa nella nostra vita.

Recenti studi americani hanno dimostrato che il profilo psicologico delle persone che hanno incidenti gravi è simile a quello dei suicidi.

Dott. Mauro Piccini

#piccini #malattia #simbolo #equilibrio #dolore

 

ANSIA DA COVID

ANSIA DA COVID

Dopo una pausa estiva vissuta in quasi apparente normalità il virus è ritornato. E’ ritornato colpendo non solo gli individui più deboli e a rischio, ma anche coloro che pur essendo sani o senza sintomi vivono quotidianamente con un’atteggiamento di allerta estrema, di paura avvolgente che toglie il fiato.
Il virus sta colpendo non solo sotto l’aspetto fisico ma, anche e soprattutto, su quello psico-emozionale.
Un esercito in crescita esponenziale di persone sta portando avanti un corteo di sintomi psichici scatenati dalla perdita dell’aspetto razionale del problema.

Tutti sappiamo che il virus è concausa di grave sintomatologia e morte in quella parte di individui che presentano, oltre ad un’età avanzata, una serie di sintomi legati alla presenza di malattie croniche concomitanti, e al contrario in una percentuale bassa in individui considerati sani.

La determinazione della positività con tampone al virus fa emergere un serie di quadri molto diversi uno dall’altro. Si passa da individui completamente asintomatici, quindi solo positivi al test a quelli paucisintomatici che presentano lieve tosse, febbricola sotto i 37,5 C, stanchezza, mal di gola, a quelli con quadro più strutturato con forte astenia, febbre alta e difficoltà respiratoria che non necessitano di assistenza diretta, a quelli che arrivano alla necessità di respirazione assistita fino ai più gravi dove necessita il ricovero in unità intensiva.

La parola ” positività” ha perso in questo periodo la sua valenza originale.
Ora, positività significa malattia, rischio e per molti possibile morte.
Positività, invece significa che ce la faremo come abbiamo sempre fatto.
Positività significa affrontare il problema.
Positività significa non farsi avvolgere e sconfiggere dalle emozioni incontrollate.
Positività significa fermarsi ed analizzare il quadro sotto tutti gli aspetti.

Oggi dichiarandosi ” positivo” si rischia di essere escluso, allontanato ed additato come portatore di sciagure.
Una psicosi sempre più diffusa sta avanzando tra noi. La paura dell’altro si percepisce negli sguardi di molte persone. I contatti sempre più distanti ci stanno portando a chiuderci in noi stessi vivendo in bolle di isolamento che portano solamente ad aumentare la solitudine e la paura del domani.
La paura di uscire da questa bolla sta innescando in moltissimi individui una sorta di forte malessere composto da nuove  ansie che autoalimentano il problema in un vortice incontrollato.
L’uso di farmaci antidepressivi ed ansiolitici è arrivato a numeri mai raggiunti.
Quello che si deve capire è che il controllo del sintomo non risolve il problema ma nascondendolo lo amplifica sempre di più.
Non ci si ammala e si muore solamente di malattie, ma si può morire anche lentamente, spegnendo la nostra reattività fisica ed emozionale.
Possiamo fisicamente vivere anche cento anni, ma senza la nostra anima, senza la nostra gioia, senza lo stare insieme e condividere, la nostra esistenza sarà quella di una vita da zombie.

Dott. Mauro Piccini

 

Copy Protected by Chetan's WP-Copyprotect.